Dante e l'Islam
di Vito
Salierno*
Nel 1919
lo studioso spagnolo Miguel Asín Palacios stupiva e irritava al tempo stesso il
mondo occidentale, in particolare italiano, descrivendo in una infiammatoria Escatología
musulmana en la Divina Comedia1 le analogie esistenti tra la
costruzione del mondo ultraterreno nella Commedia di Dante e l’escatologia musulmana. A sostegno della
sua tesi indicava comparazioni tra episodi della Commedia e passi della letteratura araba,
indicando una serie di coincidenze e somiglianze, a suo dire troppo numerose
per essere considerate casuali: si trattava in particolare delle
visioni ultramondane descritte nelle opere di due grandi poeti arabi, Ibn ‘Arabi (m. 1240) e al Ma‘arri (m. 1057).
All’epoca gli fu controbattuto il fatto che
Dante non conosceva l’arabo e che le opere della letteratura araba cui si
riferiva l’Asín Palacios non erano state tradotte in alcuna lingua europea al
tempo di Dante. In realtà queste controtesi, valide di per sé stesse, erano
state dettate più da un senso di consorteria che
da un approccio veramente critico, almeno da parte di molti studiosi
interessati alla questione: si trattava di fare quadrato contro l’Islam come se la fama di un Dante
potesse essere diminuita da una conoscenza o da un uso di testi islamici e non
viceversa accresciuta.
Nel 1949 l’orientalista Enrico Cerulli pubblicava
un’opera preziosa: Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti
arabo-spagnole della Divina Commedia. Nella prima parte riportava i testi francese e
latino relativi ad un viaggio celeste del Profeta ed alla sua visione
dei cieli e dell’inferno; nella seconda, i testi
pressoché inediti, di autori medievali contenenti notizie sulle tradizioni
escatologiche musulmane. Lo scopo di questa seconda parte era quello di
valutare quanto l’Occidente
conosceva delle idee musulmane sul Paradiso e sull’Inferno, indipendentemente
dal Libro della Scala.
Ma che
cos’era questo Libro
della Scala? Una traduzione dal castigliano,
a sua volta derivata dall’arabo (nell’originale Kitab
al-Mi‘raj, ossia “Il Libro dell’ascensione”), fatta da
un Abraham, medico ebreo (alfaquim, corruzione dell’arabo al-hakim) alla corte di Alfonso X il Savio, re
di Castiglia, tra il 1260 e il 1264: il testo originale arabo, il Kitab
al-Mi‘raj, è andato perduto.
Nel
maggio 1264 il notaio toscano Bonaventura da Siena, forse un esule ghibellino
che si trovava in Spagna, terminò,
sempre per volontà del Re Savio, la traduzione del testo dal castigliano
in francese, il Livre de l’Eschiele
Mahomet, e in latino, il Liber
Scalae Machometi.2 Da
notare che alcuni anni prima, per pochi mesi del 1260, si trovava in Spagna, come ambasciatore di Firenze
presso il re di Castiglia, Brunetto Latini; questi, nel viaggio di
ritorno in patria, al
passaggio dei Pirenei, apprese da uno studente di Bologna della
sconfitta dei Guelfi fiorentini (battaglia di Montaperti il 4 settembre 1260).
L’erudito toscano decise pertanto di rimanere in Francia, in esilio, sino alla cacciata
dei Ghibellini da Firenze nel novembre 1265. In terra francese, dove scrisse il Tesoro, Brunetto Latini potrebbe avere avuto
conoscenza della visione dell’oltretomba di Maometto: da
ricordare che il suo Tesoro fu tradotto dal francese in castigliano
durante il regno di Sancho IV, figlio e successore di Alfonso il Savio. Quando fu fatta tale ipotesi – ci fa
notare il Cerulli – non era ancora stato ritrovato il Libro
della Scala. Comunque – annota sempre il
Cerulli – la traduzione dal castigliano in francese del Libro
della Scala e la traduzione del Tesoro di
Brunetto Latini dal francese in castigliano sono entrambe una nuova
testimonianza della reciproca influenza della cultura italiana, spagnola e
francese in quella seconda metà del secolo XIII.3
Il Libro
della Scala ebbe nei secoli una larga diffusione: l’argomento fu ripreso da molti autori perché il libro
fu considerato opera dello stesso Maometto. In Occidente, infatti, fu creduto uno dei libri
sacri dell’Islam, mentre oggi sappiamo che si tratta di un’opera di pietas popolare. Il mi‘raj del Profeta è il viaggio
notturno (isra‘) da lui compiuto dalla Mecca a
Gerusalemme in volo su una cavalla alata,
Buraq; avendo per guida l’arcangelo Gabriele, il Profeta ascende ai cieli dove
incontra l’angelo della morte, l’angelo del giudizio finale e i beati. Poi
dall’alto dei cieli contempla le Sette terre sovrapposte e l’abisso infernale
con i tormenti; quindi vede i profeti precedenti, Adamo, Giovanni e Gesù,
Giuseppe figlio di Giacobbe, Idris (Enoch), Mosé. Alla fine è ammesso al
cospetto di Dio che gli rivela la parola eterna. Ritornato sulla terra,
Maometto racconta ai Quraisciti quanto aveva visto: non
creduto, decide di lasciare un racconto ai suoi fedeli perché lo trasmettano ai
posteri.
Al
viaggio notturno di Maometto è dedicata nel Corano la sura XVII di 111
versetti: “Gloria a Colui che rapì di
notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, dai benedetti precinti,
per mostrargli dei Nostri Segni”. Seguono i benefici di Dio con la registrazione e
retribuzione delle opere, i comandamenti, i rimproveri agli infedeli,
le tentazioni respinte da Maometto, la prescrizione sulla preghiera, la
sublimità del Corano,
l’incredulità dei pagani, la punizione degli infedeli con l’esempio di Faraone.4
La
scoperta del Libro della Scala,
postuma all’opera di Asín Palacios, se da un lato conferma la possibilità di
conoscenza del mondo musulmano da parte di Dante, dall’altro non autorizza ad
affermare analogie, somiglianze, parallelismi o derivazioni nella Commedia. D’altro canto queste analogie sono tante
da non poterle considerare casuali: per quali vie sono entrate a far parte
dell’opera dantesca? Si potrebbe anzi dire che non sia possibile che Dante non
avesse conosciuto il Libro della Scala, che il poeta toscano Fazio
degli Uberti menzionò poi nel Dittamondo (Libro V,
canto XII, vv.82-102, canto XIII, vv.25-42), narrazione di un fantastico
viaggio per le tre parti del mondo allora conosciuto, scritta tra il 1350 e il 1360, per non parlare dei
tanti ecclesiastici che ne erano a conoscenza se non altro per confutarlo. In una
terzina del Dittamondo si legge:
Ancor
nel libro suo [di Maometto] che Scala ha nome
dove l’ordine pon del mangiar loro [dei beati]
divisa e
scrive quivi d’ogni pome [delle frutta del
Paradiso].5
Inoltre,
verso la fine del XV secolo, il frate minorita Roberto Caracciolo da Lecce
inserì nel suo libro Specchio della Fede, stampato nel 1495 ma scritto dopo il 1481 (contiene un riferimento alla
riconquista di Otranto), un lungo riassunto in italiano del viaggio (mir‘aj) del Profeta indicando come fonte “uno libro chiamato
da Saracini in lingua arabica Helmaerich”,6 deformazione del
termine tecnico al-mir‘aj, ennesima prova che il Libro
della Scala era ancora diffuso nell’Italia meridionale alla fine del Quattrocento; da un
esame comparato, il Cerulli
dedusse oltre mezzo secolo fa trattarsi del testo latino di Bonaventura da
Siena.
Prima di
fra’ Caracciolo, un missionario
domenicano, Ricoldo da Montecroce,
ritornato a Firenze nel 1301 da un lungo soggiorno a
Baghdad, inserì in una sua opera polemica Contra legem Sarracenorum un resoconto della leggenda della “scala”,
ripresa da altre fonti non note. Inoltre, a riprova della vasta
circolazione nell’Europa medievale di questa leggenda,
esistono riassunti più o meno ampi nella Historia Arabum dell’arcivescovo Rodrigo Ximenez de Rada
(1170-1247), nella Crónica General de España, un’opera di carattere storico commissionata da re
Alfonso il Savio, e in una leggenda pisana del XIV secolo.
Appurata
la conoscenza dantesca dell’escatologia
musulmana secondo la vulgata dell’epoca e non derivata dalle opere di Ibn ‘Arabi e di al-Ma‘arri allora
sconosciute in Occidente come indicava l’Asín Palacios, il problema si
restringe alle sole fonti, alla genesi intellettuale delle concezioni di Dante,
ché il problema estetico della Commedia non è in
discussione. Le analogie, che pure esistono, sono strumentali non
propedeutiche: da sole non avrebbero potuto dar vita ad un poema che si basa su ben altre fonti di
ispirazioni mosse da un diverso ed unico motivo ideale supremo, quello cristiano.
In
conclusione, riepiloghiamo quanto Dante conosceva dell’Islam. In primis, ovviamente, Maometto che il poeta
incontra nella nona bolgia tra i seminatori di discordie e scismi (Inferno,
XXVIII, 22-63); Maometto spiega a Dante la
propria punizione, indicando ‘Ali che lo precede nella fila dei peccatori: “Dinanzi
a me sen va piangendo Alí, / fesso nel volto dal mento al ciuffetto”. Cruda è
la punizione che il poeta attribuisce a Maometto, consi-derato – secondo la
vulgata del tempo – non il fondatore di una religione ma uno scismatico che
si è allontanato dalla Chiesa comune. L’accusa ricorrente di poligamia attribuita all’Islam è
chiaramente indicata nella terzina (vv.55-57) nella quale Maometto invita Dante di avvertire fra’ Dolcino, un
prete dissidente a capo della setta ereticale degli Apostoli, i cui seguaci predicavano
la comunanza dei beni e delle donne, a meditare sulla sorte cui andrà incontro
se non vorrà pentirsi: “Or di’ a fra Dolcin
dunque che s’armi, / tu che forse vedrai il sole in breve, / s’egli non vuol
qui tosto seguitarmi”.
Benevolo
è invece il trattamento di grande rispetto riservato dal poeta ad altri tre personaggi del mondo islamico,
il Saladino, Avicenna, Averroè, che sono collocati nel
Limbo per non aver potuto beneficiare
della Rivelazione cristiana. Si tratta di un espediente dantesco nei confronti di tre
personaggi di grande valore, accostati
agli eroi e ai saggi precristiani dell’antichità, perché essi non peccarono non avendo
conosciuto la vera fede: i tre musulmani menzionati sono in realtà vissuti dopo la
Rivelazione! È il
tributo di Dante agli “spiriti magni” del Saladino, sultano di Egitto (1174-1193), non il
personaggio storico ma quello della tradizione medievale, il principe generoso
e cavalleresco (Inferno, IV, 129), e
dei filosofi Avicenna e Averroè (Inferno, IV, 143-144) – di quest’ultimo Dante ricorderà nella seconda cantica la dottrina dell’intelletto passivo durante
l’incontro con Stazio che gli spiega la
teoria della ge-nerazione (Purgatorio, XXV, 61-66). Altre citazioni di autori
arabi si ritrovano nel Convito:
Albumasar, II, 4;
Alfragano, II, 6, 14; Algazel, II, 14, IV, 21; Alpetragio, III, 2; ancora
Averroè, IV, 13, che è menzionato
anche nel De Monarchia,
I, 4, e nel De Aqua et de Terra, V; infine Avicenna nel Convito, II, 15 e III,14.
Queste
conoscenze da parte di Dante sono quelle di una qualunque persona cólta del suo
tempo, e cioè il contributo che nel medioevo la filosofia araba ha dato alla
civiltà europea.7
Dopo le
lunghe polemiche relative alle fonti musulmane della Commedia, in cui agli elementi critici si sono
mescolati nel tempo elementi nazionalistici, religiosi e simili, facendo
perdere di vista l’importanza delle ricerche da parte degli studiosi spagnoli e
italiani, quel che conta, oggi, è la dimostrazione di come la diffusione della
cultura, a dispetto di barriere e cortine di ferro, non abbia mai conosciuto
soste: chi desidera sapere, può farlo sol che lo voglia; semmai l’errore sta nell’accettazione di schemi
prefissati, dai quali è sempre difficile scostarsi. Ed oggi, nel rigoglio di
studi sull’Islam, dovremmo ammantarci di umiltà e accettare – come scriveva il
Gabrieli oltre sessant’anni fa – “la parte che tutti ci unisce, anziché
insistere oltre su ciò che ci divide”.
Le sue
parole conclusive di un saggio su Dante e
l’Islam sono tuttora valide: “un mi‘raj arabo, un re spagnolo, un medico
ebreo, un notaio italiano … e le fantasie d’oltretomba, fiorite su un oscuro versetto rivelato un
giorno nel cuore d’Arabia, aggirano il Mediterraneo, penetrano nella dolce
Toscana dello Stil Novo, e concorrono a fecondare l’humus ricchissimo
onde sboccerà il supremo fiore della Commedia”.8
1. Discorso alla Real Academia Española
il 26 gennaio 1919. Miguel ASÍN PALACIOS, Dante e l’Islam. Vol.I – L’escatologia islamica nella Divina Commedia. Vol.II – Storia critica di una polemica, Parma, Pratiche E-ditrice, 1994.
2. Il testo francese, il codice Laud.
Misc. 534, si trova alla Bodleian Library, Oxford. Quello latino, pro-babilmente
coevo, ci rimane in una trascrizione, ricopiata alcuni decenni dopo, nel secolo
XIV, nel codice lat. 6064, alla
Bibliothèque Nationale, Paris, sotto il titolo di Liber
Scalae Machometi, e nel
codice lat. 4072 alla Biblioteca Apostolica Vaticana.
3. E. CERULLI, Nuove
ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islam in Occidente, Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, 1972, pp.16-18.
4. A. BAUSANI (a cura), Il
Corano, Firenze, Sansoni, 1961,
pp.201-209; 581-585.
5. Citazione annotata di F. GABRIELI, Nuova
luce su Dante e l’Islam, in Dal mondo dell’Islam, Milano-Napoli, R. Ricciardi editore, 1954, p.162,
dei vv.94-96 Libro V, canto XII.
6. Testo riportato in E. CERULLI, Il “Libro
della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, 1949, pp.360-366; già pubblicato da A. DE FABRIZIO, Il “Mirag”
di Maometto esposto da un frate salentino del XV secolo, in “Giornale storico della letteratura
italiana”, XLIX, 1907, pp.299-313.
7. Per un esame dettagliato si veda E.
CERULLI, op. cit., pp.503-550.
8. F. GABRIELI, op. cit., p.172.
* Vito Salierno (1935-2013) è stato uno dei maggiori islamisti europei e biografo di Gabriele D'Annunzio. Nel campo specialistico dell’islamistica, ha pubblicato nel 1963 un’Antologia
della poesia urdu, nel 1972 un saggio storico-letterario Pakistan dal
deserto alla vita, nel 2000 un saggio su I Musulmani in Puglia e in
Basilicata, nel 2001 il romanzo La sultana, nel 2002 un saggio sulle
Iscrizioni pseudocufiche in Puglia e Basilicata, nel 2004 un saggio Iqbal
and Italy.
Con la nostra casa editrice ha pubblicato nel 2006 I Musulmani in
Italia - secoli IX-XIX, nel 2007 ‘Iraq dai Sumeri a Saddam Husein,
nel 2009 Alla riscoperta della Magna Grecia, nel 2010 Il Mediterraneo
nella cartografia ottomana. Coste, porti, isole negli atlanti di Piri Reis,
e nel 2008 ha curato l’edizione di Yèmen, un viaggio a Sanâa nel 1877 di
Renzo Manzoni e, nel 2012, L'Islam nel
Mediterraneo. Incontro-scontro di civiltà, da quest'ultimo saggio è tratto
"Dante e l'Islam" (cap. IX, pagg. 113-117).