Un
libro per l’estate Federico Capone
racconta miti e vicende della terra della taranta. Un immaginario
fatto anche da fate, streghe e orchi
La
storia secolare del Salento magico
di Nicola De Paulis
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Chi oggi percorre la
vecchia strada coperta da ulivi plurisecolari che nel Salento sud
orientale da Giuggianello porta verso Palmariggi, è autorizzato a
immergersi nel mito e immaginare che quegli ulivi maestosi fossero,
un tempo, fanciulli messapi irrequieti e boriosi “mutati” in
olivastri selvaggi dalle ninfe Epimelidi, legate a Dioniso,
per averle derise e sfidate in una impari lotta a passi di danza.
Tutto nasce, meglio
spiegarlo, da Nicandro di Colofone, autore greco della seconda metà
del II secolo a C., che nella terra dei Messapi, presso un luogo
chiamato “sassi sacri” (forse il Furticiddhu de la Vecchia
– caratteristico masso a forma di fuso su cui esiste anche una
leggenda che narra la battaglia fra Eracle e i Giganti –
oppure uno dei tanti menhir del Salento), apparvero le ninfe
Epimelidi che “guidavano le danze”. I fanciulli, abbandonando le
greggi, si dissero capaci di far meglio. Ma le ninfe non gradirono
l’affronto. La sfida ci fu, e i giovinetti, che avevano una maniera
di ballare semplice e rozza, furono sconfitti. E le ninfe allora li
punirono trasformandoli in alberi… Oggi il fruscio del vento sembra
quasi una mesta voce proveniente dalla selva.
Questa leggenda,
riportata anche da Ovidio, grande cantore del mondo classico, apre
l’agile e dettagliato “Viaggio nel Salento magico – La terra e
le storie”, un saggio divulgativo di Federico Capone (Capone
Editore) con prefazione di Maurizio Nocera, un libro che racconta di
folletti, streghe, fate, orchi e sirene, ma anche del venefico morso
della tarantola, di fatti di vita quotidiana, di costumi e di
superstizioni, con fiabe e filastrocche.
Il contenuto del libro
conferma quanto la danza sia costante nella storia salentina. Nel
capitolo “Il tarantismo”, Capone riporta passi di scrittori e
studiosi di varie epoche, dal Medioevo in poi, come Goffredo di
Malaterra (1100 circa) che fu il primo a citare il termine
“tarantola”, o Girolamo Marciano di Leverano (1571-1628), o
ancora Antoine Laurent Castellan (1772-1838) e Richard Craven, spesso
citati da chi si occupa della materia, ma quasi mai letti nella loro
versione originale, e soprattutto poco noti al grosso pubblico. Sono
questi studiosi a documentare come il tarantismo (diffuso in tutto il
Mediterraneo ed in Puglia in particolare) già dal ‘600, fosse
elemento ben presente nella vita delle popolazioni rurali, tanto che
viene da chiedersi: perché la Puglia? Perché il Salento? È davvero
questa la “terra del rimorso” o il “serbatoio” isolato per
millenni, che ha conservato riti dionisiaci arcaici?
Quando Ernesto De Martino
condusse nel 1959 l’inchiesta (in particolare a Galatina) da cui
scaturì il libro “La terra del rimorso”, rifiutò di collegare
il tarantismo alle tradizioni classiche del dionisismo e del
coribantismo, attribuendo al tarantismo musicale una origine
medievale. Nel dibattito attuale sul tarantismo, si considera invece
che le origini siano ben più antiche.
Tra le prove di questa
tesi, le figure su un vaso appulo-lucano del III secolo a. C. che
richiamano movimenti simili a quelli della pizzica salentina: una
menade o baccante che, mentre batte un tamburello, danza con un
satiro.
Ma da considerare ai fini
di questo discorso, come riporta Capone, ci sono per esempio le
leggende raccolte da Giuseppe Morosi nella Grecìa Salentina, le
credenze e gli usi e le superstizioni narrate da Trifone Nutricati
Briganti, Giuseppe Gigli e anche da Sigismondo Castromediano.
È proprio il duca
Castromediano, per esempio, a raccontare la leggenda della fata di
Cavallino, che abitava nei ruderi di un mulino, con tanto di
testimoni. “I nostri avi – scriveva – credevano alle fate. Il
nostro secolo non crede in nulla”.