lunedì 29 ottobre 2012

SARDEGNA. L'ISOLA DEI NURAGHI /// Recensione di Felice Laudadio Jr su Larepubblica.it


I nuraghi: editore pugliese autore sardo



Nell’ultima parte del secondo millennio dell’Età del Bronzo, si sviluppò in Sardegna un particolare tipo di struttura chiamata oggi nuraghe. Il complesso è costituito da torri circolari in forma di tronco di cono, realizzate con pietre di notevoli dimensioni (progressivamente più piccole man mano che aumenta l’altezza), con camere interne voltate a pseudocupola. Il complesso di Barumini, che fu ingrandito e rinforzato nella prima metà del primo millennio, è il più bello e il più completo esempio di questa straordinaria forma di architettura preistorica”. È la motivazione del classificazione delle caratteristiche costruzioni megalitiche quale patrimonio dell’umanità. L’Unesco ha riconosciuto nel 1997 i nuraghi “una eccezionale risposta alle condizioni politiche e sociali, con l’uso creativo e innovativo dei materiali e delle tecniche disponibili presso la comunità preistorica dell’isola”. Sulla tecnica di edificazione, un appassionato della civiltà nuragica, il sardo Pierluigi Montalbano, ha realizzato una nuova ricerca, pubblicata dall’editore pugliese Capone (Lecce): “Sardegna. L’isola dei nuraghi”, 128 pag. 15 euro. Simbolo da millenni della grande isola mediterranea – e lo restano tuttora, a maggior ragione – non hanno precedenti nel mondo arcaico. Ci sono, semmai edifici successivi che li ricordano, dalle fortificazioni di micenee nell’Argolide ai tempi dell’ittita Hattusa, in Asia Minore, alle tombe a tholos dell’Egeo e del Medioriente.

Ovviamente, i nuraghi sono stati costruiti a mano. È una curiosità legittima domandarsi con quale tecnica siano stati edificati, visto che sorsero in epoche primitive. Possenti, altri, composti da grandi blocchi poligonali, su vari piani, con corridoi e coperture a ogiva, sono circa ottomila. Lo stato di conservazione è quanto mai vario però: si va da una solidità sorprendente, al “desolante abbandono”. I più antichi datano fino a quasi 4mila anni fa, dopo il 1800 prima di Cristo. I più recenti risalgono all’inizio dell’Età del Ferro, X secolo a.C.. Montalbano ricorda il parere prevalente degli archeologi, secondo i quali i maestri costruttori nuragici hanno adottato una specie di geometria sul campo, priva di cognizioni astratte ma strettamente operativa e indubbiamente efficace. Tutta prassi, niente teorie. Fissando in terra un paletto, tracciavano circonferenze concentriche con una cordicella. Incrociando i cerchi ottenevano le indicazioni geometriche indispensabili. L’autore sardo attribuisce a questa proto-scienza pragmatica il merito di aver fatto compiere un netto progresso alle civiltà remote. “Per realizzare le colossali imprese – ha osservato Montalbano in un articolo recente – occorreva coordinare una serie di capacità contemporaneamente: progettazione architettonica, organizzazione del lavoro, supporto logistico, fornitura dei materiali, amministrazione e perfino una qualche forma di assistenza medica.
Davanti all’impiego di tanti megaliti messi in opera, altre curiosità riguardano la soluzione del problema di trasportare massi ingenti e collocarli ad altezze considerevoli. “La teoria più accreditata è quella della rampa”: i blocchi venivano trascinati in alto su rampe inclinate realizzate allo scopo e che venivano fatte girare a spirale intorno all’edificio, per evitare pendenze insormontabili. Servivano evidentemente anche misure precise “per realizzare una costruzione equilibrata”.
Resta da chiarire la funzione delle opere. Rinviando al volume risposte più articolate, si può sintetizzare in un compito di fortificazioni multiruolo, ricche peraltro di significati anch’essi multipli, da torri di avvistamento a templi a residenze del capo clan.
Pierluigi Montalbano è nato e vive a Cagliari. Studioso di paleostoria, insegna storia antica in alcuni istituti sardi. È stato relatore in ambito storico-archeologico in numerosi convegni in Italia e all’estero ed è coordinatore di importanti rassegne espositive sul Mediterraneo arcaico. È tra i maggiori specialisti in metallurgia del rame e del bronzo e collabora con un’equipe internazionale su temi che vanno dalla navigazione antica ai commerci fra oriente e occidente mediterraneo ed ai relitti sommersi del Bronzo e del Ferro.

Link d'origine: 
I nuraghi: editore pugliese autore sardo

Link utili:

Pierluigi Montalbano, "Sardegna. L'isola dei nuraghi", Capone Editore 2012

SARDEGNA. L'ISOLA DEI NURAGHI /// Recensione apparsa su "Nuovo Quotidiano di Puglia" di lunedì 15 ottobre 2012

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giovedì 25 ottobre 2012

ASCOLTATE, SIGNORE E SIGNORI /// Recensione di Rocco Biondi apparsa su "Paese Nuovo" di mercoledì 25 ottobre 2012


Da Raffaele Nigro, edito da Lorenzo Capone,
un libro che ci introduce nel mondo dei cantastorie
che colmavano l’assenza di spettacolo

Qui si racconta
la crudelissima vita


 Cinque ballate banditesche
Sabato 27 ottobre, alle ore 18,00 nella sala consiliare del Comune di Villa Castelli in Piazza Municipio, la presentazione del volume Ascoltate, signore e signori. Ballate banditesche del Settecento meridionale, di Raffaele Nigro.
Interverranno Rocco Biondi, l’editore Lorenzo Capone, Valentino Romano  e l'autore del libro Raffaele Nigro.



Rocco BIONDI
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Raffaele Nigro, ultimo cantastorie contemporaneo (come viene definito da Valentino Romano nella prefazione), con questo suo libro ci introduce e immerge nel mondo dei cantastorie, che colmavano l'assenza di spettacoli nei piccoli centri, nei borghi sperduti, nei cortili delle masserie. Nel tempo la televisione li ha soppiantati e fatti sparire.
Arrivavano durante le feste popolari e dei santi patroni, si fermavano nei piazzali, davanti ai santuari, nei luoghi destinati alle fiere e ai mercati, issavano il telone con le raffigurazioni della storia, mettevano mano a uno strumento musicale (liuto, ribeca, chitarrone, ghironda) o si affidavano alla melodiosità della solo loro voce, e raccontavano le loro storie. Alla fine il cantastorie passava con la mano o col berretto teso, ad accogliere qualche obolo, e cercava di vendere un libretto o un foglietto a stampa dei suoi versi.
I temi trattati erano vari, generalmente si ispiravano alla cronaca o all'agiografia, e andavano dai canti religioso-narrativi ai componimenti epico-cavallereschi, alle novelle d'amore tragico e infelice, alla mitologia, alle composizioni satiriche e burlesche.
Nigro in questo libro ha raccolte e commentate cinque ballate che sono imperniate sulla vita di briganti meridionali.
Si comincia con la ballata su "Don Ciro Annicchiarico", raccontata da Leonardo Arcadio. Questo autore, nato nel 1771, era un bracciante che d'estate si trasformava in girovago cantastorie. L'Annicchiarico, nato a Grottaglie in provincia di Taranto nel 1775, era un prete che si innamorò di una donna detta "la Curciola", della quale si era invaghito anche un altro prete grottagliese, don Giuseppe Motolese, appartenente ad una famiglia facoltosa. Il Motolese rimane ucciso nella notte della Madonna del Carmine del 16 luglio 1803; dell'omicidio viene accusato Don Ciro, che arrestato riesce a fuggire divenendo brigante. La sua carriera brigantesca finisce l'8 febbraio 1818 con la fucilazione nella piazza di Francavilla Fontana. Il testo della ballata, pubblicata da Pietro Palumbo, «è sistemato in 204 quartine di endecasillabi molto deteriorati, a metratura e rima incerte, a volte alternata, spesso assonanzata o per nulla rispettata».
La seconda ballata è la "Istoria della vita, uccisioni ed imprese di Antonio di Santo", che ha come autore Nicola Bruno, vissuto tra la fine del '700 e gli inizi dell'800. Il di Santo è un brigante di Solopaga, in provincia di Benevento, che visse a cavallo tra '600 e '700 e partecipò nel 1701 alla congiura antispagnola. Quando la congiura fu scoperta, il di Santo riuscì a sfuggire al carcere dandosi alla macchia e riparando nelle grotte del massiccio del Taburno. Il cantastorie descrive il brigante come un carattere facinoroso, attaccabrighe e puntiglioso. Arrestato, riesce a fuggire dal carcere, scavalcando un alto muro, e dà il via a una serie di vendette personali. La ballata è composta da 67 ottave in endecasillabi. Il brigante comunque non muore.
La terza ballata narra della "Bellissima istoria delle prodezze ed imprese di Angelo del Duca". Ricordiamo che con questo brigante inizia la storia dell'ormai classico romanzo di Raffaele Nigro "I fuochi del Basento". Del Duca era nato a San Gregorio Magno in provincia di Salerno nel 1734. Benedetto Croce sostiene che Angiolillo avrebbe condotto una vita da pastore almeno fino ai cinquant'anni, quando per una violenza subita da un suo nipote spara una fucilata contro un guardiano ammazzandogli il cavallo. Angiolillo è costretto a fuggire e darsi alla macchia. Operò tra Salerno, Avellino e la Basilicata. Non si citano nella sua vita episodi violenti o di grassazioni se non ai danni dei ricchi feudatari e degli alti prelati. Toglieva ai ricchi per dare ai poveri. Nella rapsodia di Angelo del Duca si arriva persino a parlare di miracolosità delle sue gesta. Fu impiccato a Salerno il 26 aprile 1784. Il poemetto si compone di 42 ottave.
Il quarto cantare è la "Istoria della vita e morte di Pietro Mancino, capo di banditi", che ha come autore il cantastorie cieco Donato Antonio de Martino. Mancino è una figura che più delle altre si avvicina agli antichi capitani di ventura. Nato nella prima metà del '600, secondo una fonte a Vico del Gargano, secondo un'altra a Lucera, uccise due nobili che avevano insidiato l'onore delle sorelle. Per timore di essere incarcerato fuggì dalla Puglia, mise su una banda di quindici fuorilegge, seminando terrore tra Puglia e Basilicata. Si recava spesso in Dalmazia. Combatté al fianco di diversi signori. Nel 1637 lo troviamo prima a Torino, dove fu nominato colonnello dai francesi, poi alla corte pontificia con lo stesso grado militare. Morì di morte naturale nel 1638. Raffaele Nigro inserisce nella raccolta l'edizione Muller di 63 ottave e in appendice l'edizione Paci-Russo di 62 ottave. Le due edizioni hanno non poche differenze.
L'ultima ballata, intitolata "Crudelissima istoria di Carlo Rainone dove s'intende la Vita, Morte, ricatti, uccisioni, ed imprese da lui fatte", fu composta dal cantastorie Giuseppe Di Sabato, nato ad Ottaviano. Rainone, originario di Carbonara di Nola in provincia di Napoli, visse tra fine '600 e primi del '700. Secondo l'autore del cantare, durante la sua carriera di bandito Rainone si macchiò di 167 omicidi. A tal proposito scrive Nigro: «Il canto è di quelli con agnizione negativa, perché a differenza della "Bellissima istoria di Angiolillo" dove si mettono in luce i pregi dell'uomo, qui sono le efferatezze del brigante a risaltare». Rainone venne catturato e ucciso il 10 luglio 1672. Il componimento è di 72 ottave.
Quello che Nigro scrive nel preambolo alla ballata su Pietro Mancino, «questi cantari hanno più funzione di prodotto letterario che di documento storico», può essere esteso a tutte le altre ballate.
Nella premessa alla raccolta delle ballate, Raffaele Nigro fa interessanti e condivisibili osservazioni sul decennio postunitario, sostenendo che la guerra politica e sociale di quegli anni fece morire il sogno romantico e la possibilità di voli fantastici. La cronaca è nemica del mito. L'annessione del Sud all'Italia unita si era concretizzata in un bagno di sangue. Negli scritti di quegli e su quegli anni prevale la metodologia scientifica. Dopo il 1861 il romanticismo è morto. Solo a partire dal 1870 le narrazioni e le edizioni a stampa di storie banditesche riprendono vigore.


Raffaele Nigro, Ascoltate, signore e signori, Ballate banditesche del Settecento meridionale, Prefazione di Valentino Romano, Capone Editore, Cavallino 2012, pp. 198, € 16,00

Recensione di Rocco Biondi apparsa su “Paese Nuovo” di mercoledì 25 ottobre 2012

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lunedì 22 ottobre 2012

ASCOLTATE, SIGNORE E SIGNORI /// Recensione di Salvatore F. Lattarulo sul "Corriere del Mezzogiorno" di domenica 21/10/2012


Cultura popolare
/in un libro edito da Capone

ENigro raccoglie
le antiche ballate
sui briganti del Sud
di SALVATOREF. LATTARULO

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Narrazione uguale identità. Questa equazione, tutto sommato lineare epperò resa complessa e quasi indecifrabile dalla crisi del linguaggio e delle specificità culturali, frutto del nostro presente liquido e globalizzato, è la trave portante di buona parte della scrittura di Raffaele Nigro. E regge anche l'ultimo libro consegnato in libreria per Capone, Ascoltate, signore e signori. Ballate banditesche del Settecento meridionale. Un'opera notevole di scavo e ripescaggio di quella letteratura figlia di nessuno, a torto liquidata come produzione minore e residuale dai critici paludati, ma che costituisce un prezioso giacimento mnestico, un sotto suolo affollato di frammenti di storia collettiva da mettere sotto tutela. Per lo scrittore lucano la letteratura in fondo non è che una grande affabulazione corale tesa a riposizionare il passato entro le coordinate di una sconcertante modernità, ostaggio del piattume comunicativo dei nuovi media.
Nigro ha eletto il brigante a icona principe della sua narrativa già in Fuochi del Basento, il libro che sancì la sua unzione di pubblico e critica in quegli anni Ottanta in cui la Puglia delle lettere svoltò verso la strada della sua rinascenza artistica. Di qui la mitologia popolare del ribellismo si coagulò in un fiume carsico che percorse i suoi scritti, fino a confluire in quel bacino capiente che è l'ampia ricognizione in forma di saggio d'autore intitolata Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri (Rizzoli 2006), che costituisce l'antecedente più immediato della sua nuova prova Nigro torna ora a travestirsi da saggista e mette fuori un lavoro che vuol essere il primo rinnovato atto di un'operazione di recupero attraverso i secoli di un variegato repertorio di testi poetici etichettabile come epopea nera o neo-barbara che trovò concime nel microcosmo contadino meridionale. Interpreti di questo filone sono stati i cantastorie, figure con le quali Nigro, che ha spesso rivendicato di essere un cantore fuori del coro rispetto a certa narrativa seriale minimalista in voga, instaura una scoperta sintonia a distanza.
Del resto, vicende di ferro e fuoco aventi per protagonisti capibanda e arruffapopolo lo scrittore melfitano, ma barese di lungo corso, ha cominciato da ragazzo ad ascoltare in casa, a succhiare col latte in famiglia, dal padre e dalla nonna, o per via, da bocche di anziani che hanno nutrito il suo immaginario e acceso la sua fervida fantasia di romanziere. L'oralità è il pedale profondo che mette in movimento la sua disposizione al racconto memoriale ed è alla base della tradizione canterina brigantesca, performata a viva voce da menestrelli e rielaborata a orecchio dagli ascoltatori prima di essere trascritta in edizioni alla buona. Una letteratura di strada a cura di aedi semicolti che si spostavano, sulla falsariga dei chierici vaganti medievali, di paese in paese, di piazza in piazza, per raccontare episodi di vita dal respiro epico benché umile. Pendolari dell'arte, montavano scenografie rudimentali e prendevano a recitare le loro ballate in rime catturando l'attenzione del pubblico attraverso l'intreccio di un dialogo costante tra fondali dipinti e tessitura melico-verbale. Un po' teatranti, un po' cineasti, vissero al tempo in cui la tv non c'era o emetteva i primi vagiti.
Materia del loro canto erano fatti e fattacci di tipi loschi, pendagli da forca, avvolti in un alone di leggenda che sfiorava il perimetro della santità. Nella deformazione fantastica dei rapsodi i banditi erano personaggi di confine, in precario equilibrio tra l'angelo e la bestia: paladini degli oppressi e criminali incalliti. Dentro lo spazio lirico del sogno la seduzione del male trasformava la parabola dei fuorilegge in vangelo a beneficio degli ultimi. L'uomo nero incarnava a suo modo l'ariostesca gran bontà dei cavalieri antichi. Dava voce alle attese di libertà e resurrezione di un Sud tiranneggiato e offeso, ma per contrappasso alla fine della sua vita spericolata lo attendeva la galera o il patibolo.
Miseria e grandezza di un mondo dal fascino primitivo impiccato al nodo scorsoio della modernità.

dal “Corriere del Mezzogiorno” di domenica 21 ottobre 2012

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giovedì 18 ottobre 2012

lunedì 15 ottobre 2012

IL SALENTO DA OSTUNI A LEUCA /// Recensione di Angelo Sconosciuto su "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 27/09/2012

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IL BRIGANTE CHE SI FECE GENERALE /// sul blogspot di Rocco Biondi



Il brigante che si fece generale.

Auto e controbiografia di Carmine Crocco



Carmine Crocco è il brigante più significativo ed enigmatico del periodo postunitario. Operò dal 1861 al 1864 in Basilicata e dintorni, a capo di una banda composta da migliaia di briganti, tenendo in scacco l'esercito piemontese. Morì di vecchiaia in carcere all'età di 75 anni.
Il libro, edito da Capone di Cavallino (Lecce), pubblica insieme l'autobiografia di Carmine Crocco, dettata in carcere al capitano Eugenio Massa, e la controbiografia di Crocco, scritta dal medico Basilide Del Zio. Caratteristica che accomuna i due libri è la pubblicazione avvenuta nello stesso anno (1903) presso la stessa tipografia di Melfi (G. Grieco).
Questa operazione editoriale non è nuova, ma quello che la rende interessante è l'introduzione scritta da Valentino Romano, che fa il punto sugli studi ad oggi sulla figura dell'importante brigante di Rionero in Vulture. In essa vengono date risposte a dubbi sulla controversa figura di Crocco.
Il primo dubbio che viene risolto è quello dell'autenticità del manoscritto attribuito a Crocco. Benedetto Croce e Basilide del Zio si schierano per l'autenticità, avvalorata in qualche modo anche dall'esistenza di un secondo memoriale, pubblicato in parte in un suo libro dal lombrosiano Francesco Cascella. Notevoli sono comunque le differenze, specialmente linguistiche. Riteniamo che la versione-Cascella sia più vicina alle capacità letterarie di Crocco. La versione-Massa invece ha subito massicci interventi del curatore, non solo linguistici ma anche di contenuto, per avvicinare per quanto più possibile il pensiero di Crocco alle posizione dei piemontesi.
Altro problema che viene affrontato è la "stranezza della commutazione della condanna a morte di Crocco nel carcere a vita". Molto probabilmente è frutto dell'ambigua presenza francese "in molte zone d'ombra del brigantaggio". I francesi accarezzavano il progetto di rimettere sul trono delle Due Sicilie un Murat. E molti "galantuomini" lucani, che in qualche modo appoggiarono Crocco, erano di dichiarate simpatie murattiane. Altro motivo del cambio di condanna è certamente il silenzio di Crocco sui nomi dei tanti fiancheggiatori, più o meno importanti, che lo hanno appoggiato. Il silenzio in cambio della vita.
Parte interessante dell'autobiografia è quella in cui Crocco descrive il suo rapporto problematico con Josè Borges. Il generale carlista spagnolo aveva come obiettivo quello di riportare sul trono lo spodestato re borbonico, tramite sistemi di guerra classici; mentre Crocco combatteva una sua guerra personale contro i piemontesi in difesa della sua terra e nell'interesse dei più deboli contro lo strapotere dei padroni, adottando la tecnica della guerriglia nella quale era insuperabile. Quando Borges lo abbandonò, per tentare di entrare nello Stato pontificio, andando però incontro alla morte, Crocco non se ne addolorò. «La sua partenza - scrive Crocco - non ci commuove, anzi l'abbiamo voluta stanchi del suo comando».
La lettura dei due testi, qui messi a confronto, è molto utile per capire la personalità di Crocco e cosa lui sia stato capace di fare per la sua terra. Utilizzando i necessari filtri. Valentino Romano, a chiusura della sua introduzione, lascia a noi lettori la possibilità di valutare la vicenda umana di Crocco, dicendo anche di possedere una sua visione del valore di Crocco (che comunque si riserva di esporre in altra sede). Noi esprimiamo un giudizio fortemente positivo, facendo nostro il giudizio che il curatore del libro però esprime quando scrive che Crocco fu un «personaggio capace di ridare una speranza, anche illusoria, alle rivendicazioni del mondo contadino meridionale». E aggiungiamo che quella fiammella di speranza rimane accesa ancora oggi, e non solo per il mondo contadino.

Rocco Biondi

Carmine Crocco - Basilide Del Zio, Il brigante che si fece generale, Auto e controbiografia di Carmine Crocco, a cura di Valentino Romano, Capone Editore, Cavallino (Lecce) 2011, pp. 144, € 13,00

giovedì 4 ottobre 2012

ASCOLTATE SIGNORE E SIGNORI /// di Felice Laudadio Jr su "Larepubblica.it"


Raffaele Nigro cantastorie: briganti se more (non sempre)


di Felice Laudadio jr.

nigro ascoltate signori
Chiedete a un bambino di oggi: “lo sai cos’è un cantastorie?” e risponderà con un’alzata di spalle, sempre se distoglierà lo sguardo dal videogioco che compulsa tenacemente. Non ci sono più i cantastorie di una volta, dirà la gente… e nemmeno le stagioni sono più quelle e i politici sono tutti ladri e alle svedesi piace l’uomo italiano e via con i soliti luoghi comuni. Eppure, non è vero che sono estinti. Chi è un cantastorie? Non molto tempo fa, lo è stato il grande autore di liscio Secondo Casadei, che ha composto la ballata del più famoso brigante romagnolo. “Questa è la triste storia di Stefano Pelloni, in tutta la Romagna chiamato il Passatore. Odiato dai signori, amato dalle folle, dei cuori femminili incontrastato re..”, “…sul Lamone un giorno morì per tradimento. Portato lungo i borghi per farlo disprezzare, ci fu per lui chi pianse, chi un fiore gli gettò”. Un fuorilegge per bene, nobilitato da Giovanni Pascoli: “re della strada, re della foresta”. Più vicino, negli anni Settanta, si è calato nei panni del cantastorie il cantautore napoletano Eugenio Bennato, ispirato dalla tradizione popolare del Mezzogiorno antisabaudo nella cantata “Brigante se more” (“Ommo se nasce, brigante se more, ma fino all’ultimo avimma sparà e si murimme menate nu sciore e na preghiera pe’ sta libertà!”). Tutti lo credono un brano storico autentico, invece “è un’opera di poesia, un’invenzione con grande rispetto della lezione della musica popolare”. Un cantastorie oggi è Raffaele Nigro, che raccoglie versi e ballate del brigantaggio millenario nel Sud in un volume dell’editore leccese Capone, “Ascoltate, signore e signori. Ballate banditesche del Settecento meridionale”, 198 pag. 16 euro, collana Carte scoperte, storie e controstorie.
È anche un moderno cantastorie Raffaele, giornalista, scrittore affermato, cultore di storia del Mezzogiorno, uomo del Sud e testimone di quella generazione di passaggio che ha visto all’opera le ultime voci della cultura orale popolare, cancellate dall’avvento dei media e della comunicazione globale. Come ricorda nell’introduzione, ancora “al tempo in cui la televisione era appena nata”, il cantastorie “vagabondava per paesi” alla chiusura del raccolto, tra primavera ed estate, offrendo uno spettacolo in cambio di una modesta ricompensa, raccolta alla fine in giro col piattino. “Restava uno o due giorni e poi via, il tempo di farsi ascoltare nelle piazze e nei chiassi”. Recitava, cantava, salmodiava storie in rima. Chiare fantasie che il pubblico ingenuo prendeva per fatti veri e casi di cronaca tanto mitizzati da sembrare fantastiche. Si presentava “da solo o in compagnia di un assistente, a volte la moglie”. A gran voce, passando nei vicoli, richiamava l’attenzione dei popolani, che si raccoglievano nel tardo pomeriggio davanti alla sua scena: un telone o un cartellone unico, dipinto a riquadri separati, come i fumetti, ma anche dei pannelli che indicava con una bacchetta o sostituiva man mano, secondo il racconto. Declamava o cantava. E incantava spiriti semplici.
Ascoltate, signore e signori / questa storia di un brutto destino / che gli amanti Rosetta e Peppino / a una morte crudele portò”. Nigro richiama questa quartina in metrica, ascoltata nella sua Melfi tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Storie ridotte all’essenziale fatto-misfatto, personaggi tagliati secchi, senza sfumature, bianco o nero, niente grigio, come nella sceneggiata: il buono era solo buono, il cattivo, perfido e basta. Fatti nudi e puri, lineari, anche molto sanguinari, perché la gente dopo la fatica aveva voglia solo di distrarsi, di sostenere chi meritava e di inveire contro i malamente. Accorreva per provare la commozione di veder morire nelle agonie la protagonista”, scrive Mastriani ne “I misteri di Napoli”. “Vicende tragiche, epiche, liriche, grottesche o comiche– ricorda Raffaele – ma comunque esemplari, di sfortunati che si erano dati alla macchia, di antichi cavalieri o di innamorati che avevano incontrato una tragica fine”.
Cantastorie contemporaneo dice di Nigro, nella prefazione, Valentino Romano,  per le cinque ballate ricostruite e commentate nel volume, avventure e venture di briganti tra 1600 e fine 1700: il grottagliese Don Ciro Annicchiarico, Pietro Mancino di Lucera e i campani Antonio di Santo di Solopaca, Angelo del Duca del Salernitano e Carlo Rainone, l’unico pessimo soggetto del quintetto, efferato grassatore della provincia di Napoli. “Questa è la triste storia…” canta tuttora Raoul Casadei, mentre lo scrittore melfitano si appassiona e fa appassionare della “Bellissima istoria delle prodezze ed imprese di Angiolillo del Duca“, che davvero toglieva ai ricchi per dare ai poveri, visto che tra le sue vittime non si sono annoverate che nobili, ricchi e possidenti. Venne giustiziato, come l’Annicchiarico, ex sacerdote, brigante per amore, fucilato in piazza a Francavilla Fontana. La “Crudelissima istoria di Carlo Rainone dove s’intende la Vita, Morte, ricatti, uccisioni, ed imprese da lui fatte”, si conclude con la cattura e l’esecuzione. Mancino, invece, ebbe il beneficio della morte naturale.
Resta la “Istoria della vita, uccisioni ed imprese di Antonio di Santo”. “Al suo paese andato / fu da molti nemici minacciato”. Le sue gesta venivano raccontate ben oltre il primo dopoguerra del ‘900, a sentire Benedetto Croce. L’autore è Nicola Bruno, detto “Rinaldo del Molo”, cantautore del primo ‘800. La ballata, 67 ottave in endecasillabi, inciampa qua e là e s’inceppa nella cadenza nei versi, ma Nigro la considera espressione “di una poesia primitiva e carica di suggestione” e sottolinea l’efficace impiego del dialetto, specie nei dialoghi e nelle “smargiassate del protagonista”. Narra di Antonio, beneventano, che nel 1701 aderì ad una cospirazione contro il viceré spagnolo e fu costretto alla clandestinità, tra macchie e grotte. Non era uno stinco di santo, ma nella carriera brigantesca le vendette personali sembrano prevalere sulla malvivenza tout court. Un ribelle violento più che un delinquente, un partigiano, addirittura. E alla fine, per una volta, un brigante che non “more acciso”.


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ASCOLTATE SIGNORE E SIGNORI /// Recensione di Anita Preti su "Nuovo Quotidiano di Puglia" dell'11 agosto 2012


Le ballate dei briganti

Nigro alla scoperta dei testi degli antichi cantastorie



di Anita Preti


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C’è la storia di Ciro Annicchiarico, il prete brigante di Grottaglie fucilato sulla pubblica piazza, a Francavilla Fontana, nel febbraio 1818; c’è la “bellissima istoria” delle prodezze di Angelo Del Duca capobrigante salernitano specializzato in ruberie perpetrate solo a danno dei ricchi (per poi donare il bottino ai poveri); c’è la “crudelissima istoria” di Carlo Rainone, nolano, che di prodezze ne esibiva altre: un curriculum di 167 omicidi.
C’è tutto e di più, su banditi, briganti e fuoriusciti dell’Italia post-unitaria nel libro “Ascoltate, signore e signori” pubblicato da Capone, un autentico gioiellino della letteratura post-risorgimentale affidato dall’editore alle sapienti cure di Raffaele Nigro.
Lo scrittore lucano, Premio Campiello con “I fuochi del Basento”, conquistato nel 1987 (anno di svolta nella produzione di Nigro), si è molto divertito, lo si percepisce, nel realizzare questo lavoro finalizzato a raccontare sì le gesta dei briganti ma, per una volta, non dalla parte degli storici o in presa diretta (un’autobiografia, come quella di Carmine Crocco) bensì dalla parte del popolo e, più precisamente, dei cantastorie o cantacronache, i giornalisti dell’epoca che al popolo sapevano parlare.
Nessuno oggi li ricorda più se non in Sicilia dove artisti come Franco Trincale (tra l’altro presidente dell’associazione Il Mondo dei Cantastorie) hanno provveduto a tener desta una tradizione che Nigro configura ormai più come un “prodotto letterario” che un “documento storico”.
Il cantastorie, erede dei trovatori del Medioevo, era colui che girava di piazza in piazza raccontando indifferentemente o storie antiche o fatti recenti, perlopiù tragici, aiutandosi con telone che srotolava sulla piazza affollata oppure con una cartellonistica su cui era raffigurato lo svolgersi degli eventi; il tutto sottolineato dal suono di uno strumento a corde. A metà degli anni Cinquanta, sostengono gli esperti, la figura del cantastorie soccombe sotto il peso dell’avvento della televisione e dei suoi notiziari che portano il mondo in casa.
Viene così restituita al vero valore letterario l’opera del cantastorie: del resto, al termine della rappresentazione, il girovago cantore della vita quotidiana passava tra i suoi ascoltatori con il cappello teso o con un piattino per raccogliere, al buon cuore degli astanti, un piccolo obolo (quasi un progenitore del canone televisivo) ma nello stesso tempo si industriava per vendere il libro a stampa dei versi appena recitati o una serie di fogliettini con lo stesso contenuto.
Perché di versi si trattava: quartine ed ottave di endecasillabi che Raffele Nigro ha ripescato privilegiando per il libro (la cui prefazione è firmata da Valentino Romano) cinque ballate sulle tante; non personali preferenze ma il lavoro di un ricercatore appassionato e padrone della materia come quando, nel caso della “Istoria della vita e morte di Pietro Mancino, capo dei banditi” (nato sul Gargano, capitano di ventura al soldo prima dei Francesi e poi dello Stato pontificio ma comunque in cuor suo brigante), collaziona più fonti, ovvero due note raccolte, una italiana e l’altra straniera, per cercare somiglianze e differenze.
Raffaele Nigro ha un padre reale (che spegnendosi ai piedi di un albero, in campagna, regalò poesia a chi restava) ed alcuni padri putativi; uno è stato il grande storico Tommaso Pedio, suo professore; un altro Ernesto De Martino, punto di riferimento per le ricerche; un altro lo storico della letteratura Carlo Dionisotti: in tre gli furono d’esempio sul significato da dare alla parole uomo, terra, radici. Lo ha mandato a memoria e ne fa buon uso anche in questo bel libro.


Recensione apparsa su “Nuovo Quotidiano di Puglia di sabato 11 agosto 2012

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