sabato 7 febbraio 2015

"Dante e l'Islam", di Vito Salierno


Dante e l'Islam

di Vito Salierno*


Nel 1919 lo studioso spagnolo Miguel Asín Palacios stupiva e irritava al tempo stesso il mondo occidentale, in particolare italiano, descrivendo in una infiammatoria Escatología musulmana en la Divina Comedia1 le analogie esistenti tra la costruzione del mondo ultraterreno nella Commedia di Dante e l’escatologia musulmana. A sostegno della sua tesi indicava comparazioni tra episodi della Commedia e passi della letteratura araba, indicando una serie di coincidenze e somiglianze, a suo dire troppo numerose per essere considerate casuali: si trattava in particolare delle visioni ultramondane descritte nelle opere di due grandi poeti arabi, Ibn ‘Arabi (m. 1240) e al Ma‘arri (m. 1057).
All’epoca gli fu controbattuto il fatto che Dante non conosceva l’arabo e che le opere della letteratura araba cui si riferiva l’Asín Palacios non erano state tradotte in alcuna lingua europea al tempo di Dante. In realtà queste controtesi, valide di per sé stesse, erano state dettate più da un senso di consorteria che da un approccio veramente critico, almeno da parte di molti studiosi interessati alla questione: si trattava di fare quadrato contro lIslam come se la fama di un Dante potesse essere diminuita da una conoscenza o da un uso di testi islamici e non viceversa accresciuta.
Nel 1949 l’orientalista Enrico Cerulli pubblicava un’opera preziosa: Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia. Nella prima parte riportava i testi francese e latino relativi ad un viaggio celeste del Profeta ed alla sua visione dei cieli e dell’inferno; nella seconda, i testi pressoché inediti, di autori medievali contenenti notizie sulle tradizioni escatologiche musulmane. Lo scopo di questa seconda parte era quello di valutare quanto l’Occidente conosceva delle idee musulmane sul Paradiso e sull’Inferno, indipendentemente dal Libro della Scala.
Ma che cos’era questo Libro della Scala? Una traduzione dal castigliano, a sua volta derivata dall’arabo (nell’originale Kitab al-Mi‘raj, ossia “Il Libro dell’ascensione”), fatta da un Abraham, medico ebreo (alfaquim, corruzione dell’arabo al-hakim) alla corte di Alfonso X il Savio, re di Castiglia, tra il 1260 e il  1264: il testo originale arabo, il Kitab al-Mi‘raj, è andato perduto.
Nel maggio 1264 il notaio toscano Bonaventura da Siena, forse un esule ghibellino che si trovava in Spagna, terminò, sempre per volontà del Re Savio, la traduzione del testo dal castigliano in francese, il Livre de l’Eschiele Mahomet, e in latino, il Liber Scalae Machometi.2 Da notare che alcuni anni prima, per pochi mesi del 1260, si trovava in Spagna, come ambasciatore di Firenze presso il re di Castiglia, Brunetto Latini; questi, nel viaggio di ritorno in patria, al passaggio dei Pirenei, apprese da uno studente di Bologna della sconfitta dei Guelfi fiorentini (battaglia di Montaperti il 4 settembre 1260). L’erudito toscano decise pertanto di rimanere in Francia, in esilio, sino alla cacciata dei Ghibellini da Firenze nel novembre 1265. In terra francese, dove scrisse il Tesoro, Brunetto Latini potrebbe avere avuto conoscenza della visione dell’oltretomba di Maometto: da ricordare che il suo Tesoro fu tradotto dal francese in castigliano durante il regno di Sancho IV, figlio e successore di Alfonso il Savio. Quando fu fatta tale ipotesi – ci fa notare il Cerulli – non era ancora stato ritrovato il Libro della Scala. Comunque – annota sempre il Cerulli – la traduzione dal castigliano in francese del Libro della Scala e la traduzione del Tesoro di Brunetto Latini dal francese in castigliano sono entrambe una nuova testimonianza della reciproca influenza della cultura italiana, spagnola e francese in quella seconda metà del secolo XIII.3
Il Libro della Scala ebbe nei secoli una larga diffusione: l’argomento fu ripreso da molti autori perché il libro fu considerato opera dello stesso Maometto. In Occidente, infatti, fu creduto uno dei libri sacri dell’Islam, mentre oggi sappiamo che si tratta di un’opera di pietas popolare. Il mi‘raj del Profeta è il viaggio notturno (isra) da lui compiuto dalla Mecca a Gerusalemme in volo su una cavalla alata, Buraq; avendo per guida l’arcangelo Gabriele, il Profeta ascende ai cieli dove incontra l’angelo della morte, l’angelo del giudizio finale e i beati. Poi dall’alto dei cieli contempla le Sette terre sovrapposte e l’abisso infernale con i tormenti; quindi vede i profeti precedenti, Adamo, Giovanni e Gesù, Giuseppe figlio di Giacobbe, Idris (Enoch), Mosé. Alla fine è ammesso al cospetto di Dio che gli rivela la parola eterna. Ritornato sulla terra, Maometto racconta ai Quraisciti quanto aveva visto: non creduto, decide di lasciare un racconto ai suoi fedeli perché lo trasmettano ai posteri.
Al viaggio notturno di Maometto è dedicata nel Corano la sura XVII di 111 versetti: “Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, dai benedetti precinti, per mostrargli dei Nostri Segni”. Seguono i benefici di Dio con la registrazione e retribuzione delle opere, i comandamenti, i rimproveri agli infedeli, le tentazioni respinte da Maometto, la prescrizione sulla preghiera, la sublimità del Corano, l’incredulità dei pagani, la punizione degli infedeli con l’esempio di Faraone.4 
La scoperta del Libro della Scala, postuma all’opera di Asín Palacios, se da un lato conferma la possibilità di conoscenza del mondo musulmano da parte di Dante, dall’altro non autorizza ad affermare analogie, somiglianze, parallelismi o derivazioni nella Commedia. D’altro canto queste analogie sono tante da non poterle considerare casuali: per quali vie sono entrate a far parte dell’opera dantesca? Si potrebbe anzi dire che non sia possibile che Dante non avesse conosciuto il Libro della Scala, che il poeta toscano Fazio degli Uberti menzionò poi nel Dittamondo (Libro V, canto XII, vv.82-102, canto XIII, vv.25-42), narrazione di un fantastico viaggio per le tre parti del mondo allora conosciuto, scritta tra il 1350 e il 1360, per non parlare dei tanti ecclesiastici che ne erano a conoscenza se non altro per confutarlo. In una terzina del Dittamondo si legge:

Ancor nel libro suo [di Maometto] che Scala ha nome
dove l’ordine pon del mangiar loro [dei beati]
divisa e scrive quivi d’ogni pome [delle frutta del Paradiso].5

Inoltre, verso la fine del XV secolo, il frate minorita Roberto Caracciolo da Lecce inserì nel suo libro Specchio della Fede, stampato nel 1495 ma scritto dopo il 1481 (contiene un riferimento alla riconquista di Otranto), un lungo riassunto in italiano del viaggio (mir‘aj) del Profeta indicando come fonte “uno libro chiamato da Saracini in lingua arabica Helmaerich”,6 deformazione del termine tecnico al-mir‘aj, ennesima prova che il Libro della Scala era ancora diffuso nell’Italia meridionale alla fine del Quattrocento; da un esame comparato, il Cerulli dedusse oltre mezzo secolo fa trattarsi del testo latino di Bonaventura da Siena.
Prima di fra’ Caracciolo, un missionario domenicano, Ricoldo da Montecroce,  ritornato a Firenze nel 1301 da un lungo soggiorno a Baghdad, inserì in una sua opera polemica Contra legem Sarracenorum un resoconto della leggenda della “scala”, ripresa da altre fonti non note. Inoltre, a riprova della vasta circolazione  nell’Europa medievale di questa leggenda, esistono riassunti più o meno ampi nella Historia Arabum dell’arcivescovo Rodrigo Ximenez de Rada (1170-1247), nella Crónica General de España, un’opera di carattere storico commissionata da re Alfonso il Savio, e in una leggenda pisana del XIV secolo.
Appurata la conoscenza dantesca dell’escatologia musulmana secondo la vulgata dell’epoca e non derivata dalle opere di Ibn ‘Arabi e di al-Ma‘arri allora sconosciute in Occidente come indicava l’Asín Palacios, il problema si restringe alle sole fonti, alla genesi intellettuale delle concezioni di Dante, ché il problema estetico della Commedia non è in discussione. Le analogie, che pure esistono, sono strumentali non propedeutiche: da sole non avrebbero potuto dar vita ad un poema che si basa su ben altre fonti di ispirazioni mosse da un diverso ed unico motivo ideale supremo, quello cristiano.
In conclusione, riepiloghiamo quanto Dante conosceva dell’Islam. In primis, ovviamente, Maometto che il poeta incontra nella nona bolgia tra i seminatori di discordie e scismi (Inferno, XXVIII, 22-63); Maometto spiega a Dante la propria punizione, indicando ‘Ali che lo precede nella fila dei peccatori: “Dinanzi a me sen va piangendo Alí, / fesso nel volto dal mento al ciuffetto”. Cruda è la punizione che il poeta attribuisce a Maometto, consi-derato – secondo la vulgata del tempo – non il fondatore di una religione ma uno scismatico che si è allontanato dalla Chiesa comune. L’accusa ricorrente di poligamia attribuita all’Islam è chiaramente indicata nella terzina (vv.55-57) nella quale Maometto invita Dante di avvertire fra’ Dolcino, un prete dissidente a capo della setta ereticale degli Apostoli, i cui seguaci predicavano la comunanza dei beni e delle donne, a meditare sulla sorte cui andrà incontro se non vorrà pentirsi: “Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi, / tu che forse vedrai il sole in breve, / s’egli non vuol qui tosto seguitarmi”.
Benevolo è invece il trattamento di grande rispetto riservato dal poeta ad altri tre personaggi del mondo islamico, il Saladino, Avicenna, Averroè, che sono collocati nel Limbo per non aver potuto beneficiare della Rivelazione cristiana. Si tratta di un espediente dantesco nei confronti di tre personaggi di grande valore, accostati agli eroi e ai saggi precristiani dell’antichità, perché essi non peccarono non avendo conosciuto la vera fede: i tre musulmani menzionati sono in realtà vissuti dopo la Rivelazione! È il tributo di Dante agli “spiriti magni” del Saladino, sultano di Egitto (1174-1193), non il personaggio storico ma quello della tradizione medievale, il principe generoso e cavalleresco (Inferno, IV, 129), e dei filosofi Avicenna e Averroè (Inferno, IV, 143-144)di quest’ultimo Dante ricorderà nella seconda cantica la dottrina dell’intelletto passivo durante l’incontro con Stazio che gli spiega la teoria della ge-nerazione (Purgatorio, XXV, 61-66). Altre citazioni di autori arabi si ritrovano nel Convito: Albumasar, II, 4; Alfragano, II, 6, 14; Algazel, II, 14, IV, 21; Alpetragio, III, 2; ancora Averroè, IV, 13, che è menzionato anche nel De Monarchia, I, 4, e nel De Aqua et de Terra, V; infine Avicenna nel Convito, II, 15 e III,14.
Queste conoscenze da parte di Dante sono quelle di una qualunque persona cólta del suo tempo, e cioè il contributo che nel medioevo la filosofia araba ha dato alla civiltà europea.7      
Dopo le lunghe polemiche relative alle fonti musulmane della Commedia, in cui agli elementi critici si sono mescolati nel tempo elementi nazionalistici, religiosi e simili, facendo perdere di vista l’importanza delle ricerche da parte degli studiosi spagnoli e italiani, quel che conta, oggi, è la dimostrazione di come la diffusione della cultura, a dispetto di barriere e cortine di ferro, non abbia mai conosciuto soste: chi desidera sapere, può farlo sol che lo voglia; semmai l’errore sta nell’accettazione di schemi prefissati, dai quali è sempre difficile scostarsi. Ed oggi, nel rigoglio di studi sull’Islam, dovremmo ammantarci di umiltà e accettare – come scriveva il Gabrieli oltre sessant’anni fa – “la parte che tutti ci unisce, anziché insistere oltre su ciò che ci divide”.
Le sue parole conclusive di un saggio su Dante e l’Islam sono tuttora valide: “un mi‘raj arabo, un re spagnolo, un medico ebreo, un notaio italiano … e le fantasie d’oltretomba, fiorite su un oscuro versetto rivelato un giorno nel cuore d’Arabia, aggirano il Mediterraneo, penetrano nella dolce Toscana dello Stil Novo, e concorrono a fecondare l’humus ricchissimo onde sboccerà il supremo fiore della Commedia”.8

1. Discorso alla Real Academia Española il 26 gennaio 1919. Miguel ASÍN PALACIOS, Dante e l’Islam. Vol.I L’escatologia islamica nella Divina Commedia. Vol.II Storia critica di una polemica, Parma, Pratiche E-ditrice, 1994.
2. Il testo francese, il codice Laud. Misc. 534, si trova alla Bodleian Library, Oxford. Quello latino, pro-babilmente coevo, ci rimane in una trascrizione, ricopiata alcuni decenni dopo, nel secolo XIV, nel codice lat. 6064, alla Bibliothèque Nationale, Paris, sotto il titolo di Liber Scalae Machometi, e nel codice lat. 4072 alla Biblioteca Apostolica Vaticana.
3. E. CERULLI, Nuove ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islam in Occidente, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1972, pp.16-18.
4. A. BAUSANI (a cura), Il Corano, Firenze, Sansoni, 1961, pp.201-209; 581-585.
5. Citazione annotata di F. GABRIELI, Nuova luce su Dante e l’Islam, in Dal mondo dell’Islam, Milano-Napoli, R. Ricciardi editore, 1954, p.162, dei vv.94-96 Libro V, canto XII.
6. Testo riportato in E. CERULLI, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1949, pp.360-366; già pubblicato da A. DE FABRIZIO, Il “Mirag” di Maometto esposto da un frate salentino del XV secolo, in “Giornale storico della letteratura italiana”, XLIX, 1907, pp.299-313.
7. Per un esame dettagliato si veda E. CERULLI, op. cit., pp.503-550.
8. F. GABRIELI, op. cit., p.172.



* Vito Salierno (1935-2013) è stato uno dei maggiori islamisti europei e biografo di Gabriele D'Annunzio. Nel campo specialistico dell’islamistica, ha pubblicato nel 1963 un’Antologia della poesia urdu, nel 1972 un saggio storico-letterario Pakistan dal deserto alla vita, nel 2000 un saggio su I Musulmani in Puglia e in Basilicata, nel 2001 il romanzo La sultana, nel 2002 un saggio sulle Iscrizioni pseudocufiche in Puglia e Basilicata, nel 2004 un saggio Iqbal and Italy.
Con la nostra casa editrice ha pubblicato nel 2006 I Musulmani in Italia - secoli IX-XIX, nel 2007 ‘Iraq dai Sumeri a Saddam Husein, nel 2009 Alla riscoperta della Magna Grecia, nel 2010 Il Mediterraneo nella cartografia ottomana. Coste, porti, isole negli atlanti di Piri Reis, e nel 2008 ha curato l’edizione di Yèmen, un viaggio a Sanâa nel 1877 di Renzo Manzoni e, nel 2012, L'Islam nel Mediterraneo. Incontro-scontro di civiltà, da quest'ultimo saggio è tratto "Dante e l'Islam" (cap. IX, pagg. 113-117).


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