mercoledì 20 febbraio 2013

FIABE E LEGGENDE DI PUGLIA /// "La rupe della dannata" su Nuovo Quotidiano di Puglia del 19/02/2013

La raccolta di Antonio Errico

Da oggi nelle librerie il volume che riscopre i testi tramandati dalla tradizione pugliese

Fiabe e Leggende di passioni e santi



La rupe della dannata
Il giorno delle nozze già s’approssimava, e marzo si volgeva ormai alla fine.
Non s’era neanche fatto l’imbrunire che all’arco grande della masseria si avvicinarono uomini a cavallo.
Due erano, con la lama al fianco.
Il massaro si fece avanti e disse: – Che vulite.
Uno dei due voltò lo sguardo verso le stalle, poi verso il granaio, poi ancora alle stalle.
Voltò uno sguardo torvo, minacciante.
L’altro carezzava la criniera del cavallo e guardava il massaro come a sfida.
Quello che carezzava la criniera del cavallo parlò.
Disse: – A giorni vostra figlia si marita.
– Con la benedizione di Maria – rispose il massaro.
– E del signore Gian Girolamo Acquaviva – disse lo sgherro.
Allora il massaro ebbe la dimostrazione di quello che aveva prestamente intuito.
Poi parlò l’altro continuando a guardare le stalle e il granaio e le stalle: – La sera che vostra figlia si marita, quando si sarà fatto tutto scuro, qui verrà una carrozza con gli sfarzi e la porterà al palazzo di Nardò, che il conte vuole tributare il giusto omaggio che spetta alla bellezza della sposa.
Il massaro impallidì.
Tese la mano verso i due uomini per dire di aspettare, per chiedere parola.
Uno tirò le redini al cavallo e gridò: – ahhh.
L’altro tirò le redini al cavallo e gridò: – ahhh.
Sparirono al bivio del sentiero.
Quando il massaro arrivò vicino al pozzo, la moglie lo guardò, e abbassò gli occhi.
Lui abbassò gli occhi.
Ognuno conosceva la costumanza infame che aveva Gian Girolamo Acquaviva, conte di Conversano e signore di Nardò, la cui crudeltà poteva pareggiare solo con la bruttezza della sua figura.
Piccolo, magro, con un occhio infossato, veniva detto il Guercio da chiunque, da chi gli voleva male e da chi gli voleva bene.
Più volte aveva dato prova della sua ferocia.
Più volte di non avere timore neppure di Dio.
Il mattino dopo, la ragazza tesseva al telaio.
La madre arrivò alle sue spalle e cominciò ad accarezzarle i capelli lunghi, neri.
La ragazza avvertì un tremore della mano.
Si voltò.
Si accorse che la madre tratteneva il pianto.
– Non siete felice, madre? – domandò.
La donna non rispose.
Allora la ragazza chiese un’altra volta: – Non siete felice? Dite, che cosa vi turba il cuore, madre, dite.
La donna cominciò a singhiozzare.
Stringeva la figlia al petto e singhiozzava.
Quando il singhiozzo si fu placato appena, prese le mani della ragazza fra le sue e cominciò a parlare.
– Ti rammenti dei due uomini che vennero qui ieri?
– Certo, ricordo – rispose la ragazza. – I due uomini che vennero a cavallo. Mi ricordo.
Senza sospettare di avere dentro sè tanto coraggio, la donna allora disse: – Venivano a portare l’ambasciata del conte Gian Girolamo Acquaviva.
– Che ambasciata – chiese la ragazza.
– Che il Guercio vuole la tua prima notte.
Tra le due donne si spalancò un silenzio nero.
Aveva sentito, la ragazza, quella storia del conte, però aveva pensato fosse diceria, ciarla maligna, mormorazione fatua.
Ora aveva gli occhi affondati dentro il nulla.
Sentiva un dolore al petto, nelle viscere un tremore.
Avrebbe voluto piangere e non riusciva.
Avrebbe voluto chiedere e non sapeva che cosa chiedere.
Aiuto, forse. A chi.
Certo non poteva al suo promesso sposo, perché lo avrebbe spinto all’omicidio, perché avrebbe distrutto la sua vita.
Aiuto a chi.
Mai nessun giorno era stato così lungo. Mai così straziante, maledetto.
Si fece sera. Poi fu notte fonda.
Mise l’acqua nella tinozza e si lavò.
Poi si pettinò a lungo e lentamente.
Indossò il vestito di sposa ricamato.
Si passò le mani sui seni, lungo i fianchi.
Sul collo spalmò una fragranza di geranio.
Al petto si appuntò la spilla d’oro.
Uscì.
C’era la luna alta e un vento lieve.
C’era odore di mare e rosmarino.
Cento volte e cento aveva fatto quel tratturo.
Sentì la mano forte di suo padre quando da bambina la portava fino all’orlo del dirupo, e lei stringeva la mano del padre e guardava giù. Senza paura.
Guardava giù e non aveva paura.
I ricordi erano come nuvolaglie. Si radunavano tutti nel pensiero.
Ricordò il primo bacio d’uomo.
La prima volta dell’amore.
Ricordò le storie della madre prima di dormire.
Ricordò i canti lunghi delle serenate.
C’era un vento lieve e luna alta, lontana, bianca, nitida, lucente.
Camminò piano. Assaporava l’aria.
Giunse alla torre di Santa Maria dell’Alto.
Sentì il vocio dei cavallari ubriachi.
Si spinse fino all’argine.
Il vento ondeggiò la sua veste bianca.
Guardò lontano e vide l’infinito.
Non era cielo e mare. Era l’infinito.
Si voltò alla direzione dov’era la sua casa.
Ma non pensò. Non volle pensare.
Si voltò di nuovo verso l’infinito.
Si inginocchiò al limitare dell’abisso.
Si fece il segno della croce e cominciò a pregare.
Madre del Cielo, Madonna della luce
eccomi ai tuoi piedi, qui, prostrata
Vergine Maria che conosci ogni mistero
abbi pietà di quest’anima dannata.
Io muoio per amore e per fede a un uomo
Tu salvami dall’inferno Madre Santa
Tu dammi pace lì dov’è l’Eterno
Non lasciarmi morire sconsolata.
Giglio d’amore, madre del Signore
Porta del Cielo, potente imperatrice
ascolta la mia preghiera, ti scongiuro
avvolgi nel tuo mantello il mio dolore.
Così pregò.
Poi si lasciò cadere e la sua veste bianca per un istante sembrò la scia di una cometa.
Una nuvola smorzò la luce della luna.
Il mare ebbe come uno spasimo rabbioso.
Il vento si gonfiò in un delirio.
Si dice che in certe notti di luna piena, ai piedi della Torre dell’Alto, a Santa Caterina di Nardò, ancora si veda una donna vestita da sposa, che prega sullo sperone di roccia a strapiombo sul mare.
Si dice. 


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