La raccolta di Antonio Errico
Da oggi nelle librerie il volume che riscopre i testi tramandati dalla tradizione pugliese
Fiabe e Leggende di passioni e santi
Il giorno delle nozze già
s’approssimava, e marzo si volgeva ormai alla fine.
Non s’era neanche fatto
l’imbrunire che all’arco grande della masseria si avvicinarono uomini a
cavallo.
Due erano, con la lama al
fianco.
Il massaro si fece avanti
e disse: – Che vulite.
Uno dei due voltò lo
sguardo verso le stalle, poi verso il granaio, poi ancora alle stalle.
Voltò uno sguardo torvo,
minacciante.
L’altro carezzava la
criniera del cavallo e guardava il massaro come a sfida.
Quello che carezzava la
criniera del cavallo parlò.
Disse: – A giorni vostra
figlia si marita.
– Con la benedizione di
Maria – rispose il massaro.
– E del signore Gian
Girolamo Acquaviva – disse lo sgherro.
Allora il massaro ebbe la
dimostrazione di quello che aveva prestamente intuito.
Poi parlò l’altro
continuando a guardare le stalle e il granaio e le stalle: – La sera che vostra
figlia si marita, quando si sarà fatto tutto scuro, qui verrà una carrozza con
gli sfarzi e la porterà al palazzo di Nardò, che il conte vuole tributare il
giusto omaggio che spetta alla bellezza della sposa.
Il massaro impallidì.
Tese la mano verso i due
uomini per dire di aspettare, per chiedere parola.
Uno tirò le redini al
cavallo e gridò: – ahhh.
L’altro tirò le redini al
cavallo e gridò: – ahhh.
Sparirono al bivio del
sentiero.
Quando il massaro arrivò
vicino al pozzo, la moglie lo guardò, e abbassò gli occhi.
Lui abbassò gli occhi.
Ognuno conosceva la
costumanza infame che aveva Gian Girolamo Acquaviva, conte di Conversano e
signore di Nardò, la cui crudeltà poteva pareggiare solo con la bruttezza della
sua figura.
Piccolo, magro, con un
occhio infossato, veniva detto il Guercio da chiunque, da chi gli voleva male e
da chi gli voleva bene.
Più volte aveva dato prova
della sua ferocia.
Più volte di non avere
timore neppure di Dio.
Il mattino dopo, la
ragazza tesseva al telaio.
La madre arrivò alle sue
spalle e cominciò ad accarezzarle i capelli lunghi, neri.
La ragazza avvertì un
tremore della mano.
Si voltò.
Si accorse che la madre
tratteneva il pianto.
– Non siete felice, madre?
– domandò.
La donna non rispose.
Allora la ragazza chiese
un’altra volta: – Non siete felice? Dite, che cosa vi turba il cuore, madre,
dite.
La donna cominciò a
singhiozzare.
Stringeva la figlia al
petto e singhiozzava.
Quando il singhiozzo si fu
placato appena, prese le mani della ragazza fra le sue e cominciò a parlare.
– Ti rammenti dei due
uomini che vennero qui ieri?
– Certo, ricordo – rispose
la ragazza. – I due uomini che vennero a cavallo. Mi ricordo.
Senza sospettare di avere
dentro sè tanto coraggio, la donna allora disse: – Venivano a portare
l’ambasciata del conte Gian Girolamo Acquaviva.
– Che ambasciata – chiese
la ragazza.
– Che il Guercio vuole la
tua prima notte.
Tra le due donne si
spalancò un silenzio nero.
Aveva sentito, la ragazza,
quella storia del conte, però aveva pensato fosse diceria, ciarla maligna,
mormorazione fatua.
Ora aveva gli occhi
affondati dentro il nulla.
Sentiva un dolore al
petto, nelle viscere un tremore.
Avrebbe voluto piangere e
non riusciva.
Avrebbe voluto chiedere e
non sapeva che cosa chiedere.
Aiuto, forse. A chi.
Certo non poteva al suo
promesso sposo, perché lo avrebbe spinto all’omicidio, perché avrebbe distrutto
la sua vita.
Aiuto a chi.
Mai nessun giorno era
stato così lungo. Mai così straziante, maledetto.
Si fece sera. Poi fu notte
fonda.
Mise l’acqua nella tinozza
e si lavò.
Poi si pettinò a lungo e
lentamente.
Indossò il vestito di
sposa ricamato.
Si passò le mani sui seni,
lungo i fianchi.
Sul collo spalmò una
fragranza di geranio.
Al petto si appuntò la
spilla d’oro.
Uscì.
C’era la luna alta e un
vento lieve.
C’era odore di mare e
rosmarino.
Cento volte e cento aveva
fatto quel tratturo.
Sentì la mano forte di suo
padre quando da bambina la portava fino all’orlo del dirupo, e lei stringeva la
mano del padre e guardava giù. Senza paura.
Guardava giù e non aveva
paura.
I ricordi erano come
nuvolaglie. Si radunavano tutti nel pensiero.
Ricordò il primo bacio
d’uomo.
La prima volta dell’amore.
Ricordò le storie della
madre prima di dormire.
Ricordò i canti lunghi
delle serenate.
C’era un vento lieve e
luna alta, lontana, bianca, nitida, lucente.
Camminò piano. Assaporava
l’aria.
Giunse alla torre di Santa
Maria dell’Alto.
Sentì il vocio dei
cavallari ubriachi.
Si spinse fino all’argine.
Il vento ondeggiò la sua
veste bianca.
Guardò lontano e vide
l’infinito.
Non era cielo e mare. Era
l’infinito.
Si voltò alla direzione
dov’era la sua casa.
Ma non pensò. Non volle
pensare.
Si voltò di nuovo verso
l’infinito.
Si inginocchiò al limitare
dell’abisso.
Si fece il segno della
croce e cominciò a pregare.
Madre del Cielo, Madonna
della luce
eccomi ai tuoi piedi, qui,
prostrata
Vergine Maria che conosci
ogni mistero
abbi pietà di quest’anima
dannata.
Io muoio per amore e per
fede a un uomo
Tu salvami dall’inferno
Madre Santa
Tu dammi pace lì dov’è
l’Eterno
Non lasciarmi morire
sconsolata.
Giglio d’amore, madre del
Signore
Porta del Cielo, potente
imperatrice
ascolta la mia preghiera,
ti scongiuro
avvolgi nel tuo mantello
il mio dolore.
Così pregò.
Poi si lasciò cadere e la
sua veste bianca per un istante sembrò la scia di una cometa.
Una nuvola smorzò la luce
della luna.
Il mare ebbe come uno
spasimo rabbioso.
Il vento si gonfiò in un
delirio.
Si dice che in certe notti
di luna piena, ai piedi della Torre dell’Alto, a Santa Caterina di Nardò,
ancora si veda una donna vestita da sposa, che prega sullo sperone di roccia a
strapiombo sul mare.
Si dice.
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