martedì 25 settembre 2012

Pierluigi Montalbano, "Sardegna. L'isola dei nuraghi", Capone Editore 2012



Pierluigi Montalbano,
Sardegna. L’isola dei nuraghi
Capone Editore 2012 












Pagine 128, € 15,00
ISBN: 978-88-8349-167-2


IL LIBRO
Il nuraghe, originale costruzione megalitica, è il simbolo della Sardegna arcaica. Edificio suggestivo, che conserva tuttora il fascino dell’umanità più antica, non ha precedenti sulla faccia della terra. Alti, possenti, costruiti con grandi blocchi poligonali, a più piani, con corridoi e coperture a ogiva, e, quasi tutti, con coronamento sulla parte sommitale, i nuraghi impressionano quanti li osservano. Sono circa ottomila, alcuni in stato di conservazione sorprendente, altri, e sono purtroppo la maggior parte, in stato di desolante abbandono. I primi, i più antichi, risalgono al XVII sec. a. C., altri, i più recenti, all’inizio dell’Età del Ferro, X sec. a. C. L’imponenza e la tecnica costruttiva delle strutture ci ricordano le fortificazioni megalitiche di Tirinto, di Micene, di Hattusa, in Asia Minore, così come le grandi tombe a tholos dell’area egea e mediorientale.
Furono gli architetti e le maestranze sarde ad “esportare” la tecnica costruttiva megalitica o ci furono intrecci culturali tra le diverse civiltà che, influenzandosi vicendevolmente, diedero vita alle monumentali costruzioni presenti in tutti i paesi che affacciano sul Mediterraneo? 

 L’AUTORE
Pierluigi Montalbano è nato e vive a Cagliari. Studioso di paleostoria, insegna storia antica in alcuni istituti sardi.
È stato relatore in ambito storico-archeologico in numerosi convegni in Italia e all’estero ed è coordinatore di importanti rassegne espositive sul Mediterraneo arcaico. Collabora con una equipe internazionale su temi riguardanti la navigazione antica, i relitti sommersi del Bronzo e del Ferro e i commerci fra oriente e occidente mediterraneo.
È uno dei maggiori specialisti della metallurgia del rame e del bronzo, dalla produzione ai processi di lavorazione per ottenere i prodotti finiti.
Dirige il quotidiano on-line di storia e archeologia, organizza conferenze sulla storia della Sardegna e progetta laboratori didattici dedicati all’archeologia.
Curatore della rassegna culturale “Viaggio nella Storia”, realizzata in collaborazione con i docenti della Università di Cagliari, è autore di oltre novanta articoli a carattere scientifico e dei volumi Le navicelle bronzee nuragiche (2007); Dal Neolitico alla civiltà nuragica (2008); Sherden, Signori del mare e del metallo (2009); Antichi popoli del Mediterraneo (2011).


Abbasanta, nuraghe Losa


Monte D'Accodi

STORIA DEL REGNO DI NAPOLI // Presentazione a Mesagne (Br) da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 16/09/2012



MESAGNE LA PRESENTAZIONE
A CURA DELL'«ISTlTUTO CULTURALE
"STORIA E TERRITORIO"» 
Croce e la sua
«Storia del Regno di Napoli»
Lo studio di Angelo Panarese



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Libri di Benedetto Croce assieme ad altri 300mila volumi circa nei cartoni di un deposito: è stata la notizia di questo fine agosto ed ecco che il mondo della cultura si mobilita in favore del Centro di studi filosofici del prof. Marotta.
Nel segno di Benedetto Croce, tuttavia, è ora fresco di stampa «Storia del Regno di Napoli. Un confronto con Benedetto Croce», di Angelo Panarese (Capone Editore 2012, p. 168), che l'«Istituto culturale "Storia e territorio"» di Mesagne intende presentare nella cittadina, alla rirpesa autunnalle della proprie attività culturali. Angelo Panarese, laureato in Lettere e Scienze Politiche, è insegnante di Scuola media superiore; è stato sindaco della città di Alberobello dal 1994 al 2001, e, quanto agli studi, è autore di «La devianza minorile: il caso Puglia 1976-1986. Economia, Sociologia, Diritto» (Bari, 1988); «Felicità e cittadinanza nella teoria politica di Aristotele» (Manduria, 1993); «Dal riscatto feudale al riconoscimento di Alberobello come patrimonio dell'umanità" (Alberobello, 2000); «Filosofia e Stato» (Lecce, 2005); «I tre Poteri» (Bari, 2008); «Donne, giacobini e sanfedisti nella Rivoluzione napoletana del 1799» (Bari, 2011).
E proprio un anno dopo quello studio sulla rivoluzione napoletana ecco le pagine odierne. «In questi ultimi anni c'è stata una rinascita e un interesse particolare del grande pubblico sui temi della storia del Mezzogiorno -si spiega -. Ciò è dipeso, dalla celebrazione dei centocinquanta anni dell'Unità d'Italia e dalla pubblicazione di molte opere che fanno un bilancio problematico e critico del come è avvenuta l'Unità d'Italia e di quanto il Mezzogiorno sia stato dipendente e subalterno al Nord nel processo di sviluppo. Senza dimenticare - aggiunge -, inoltre, le stragi, e le violenze, perpetrate dall'esercito piemontese a Pontelandolfo e a Casalduni durante l'ultimo anno del governo di Francesco II, ed, infine, il Brigantaggio, che fu autentica guerra sociale, che si diffuse nel Mezzogiorno d'Italia dal 1861 al 1865». «Tutti temi - spiega l'editore - che hanno alimentato una maggiore conoscenza delle problematiche del Sud e una più profonda consapevolezza dei limiti storici del processo di unificazione italiana. È proprio per questa ragione che è opportuno rileggere criticamente la "Storia del Regno di Napoli" di Benedetto Croce, che ripercorre la vicenda storica del Mezzogiorno dal 1282, data dello scoppio della Guerra del Vespro, al 1861, momento della sua caduta definitiva. Ripartire da questa grande opera - si spiega ancora-, significa, da una parte, assumere un atteggiamento critico rispetto a molte formulazioni crociane, dall'altra, fare i conti con il nucleo fondamentale della sua concezione ». Ed alla ripresa autunnale, inizia il tour delle presentazioni: sarebbe auspicabile che una tappa per provincia la si facesse, ma intanto si inizia da Mesagne.


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mercoledì 19 settembre 2012

PUGLIA BIZANTINA// Recensione di Giacomo Annibaldis apparsa su "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 13/08/2012


«Puglia bizantina»,
cercando Costantinopoli all’angolo di casa
Con Nino Lavermicocca,
per riscoprire storia e cultura della nostra regione
di GIACOMO ANNIBALDIS

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I vandali l’hanno imbrattata con vernice rosa: una sorta di performance, che voleva essere spiritosa e che invece è soltanto stupida.  Così un anno fa appariva la chiesetta di San Mauro presso Gallipoli, tutta coperta da uno strato rosa-shocking. Scandaloso.
Di certo i barbari non conoscevano il valore del piccolo romitaggio, «segno forte e indissolubile luogo della bizantinità di Gallipoli», la cui fondazione si perde nella leggenda, mentre il sito è «ben documentato dal 1149 fino al 1227, nel luogo detto “A n a fo r a r i o ”, prospiciente cioè il mare».
D’altronde molti di noi conoscono ben poco la storia della Puglia bizantina, gli eventi, le tracce, i culti e i tesori disseminati nel territorio e nelle chiese... Una storia medievale, che vuole emergere e farsi notare: se si pensa che negli ultimi decenni nel borgo antico di Bari sono affiorati i resti di una decina di luoghi sacri sicuramente bizantini, tempietti databili cioè al tempo in cui la  città era la capitale del «Thema Langobardorum», sotto il dominio di Costantinopoli. E lo fu per ben due secoli.
Sulle vicende baresi Nino Lavermicocca ha più volte cercato di richiamare l’attenzione; almeno con i tre volumi divulgativi editi da Pagina (Bari bizantina.Capitale mediterranea del 2003; Bari bizantina. 1071-1156: il declino, del 2006, e Bari bizantina. 1156-1261, del 2010).
Ora lo studioso barese (che è stato ispettore nella Soprintendenza di Puglia) allarga il suo campo visivo e ci dona un affresco su tutta la Puglia bizantina, raccontandoci, per i tipi dell’editore Capone, «Storia e cultura di una regione mediterranea (876-1071)» (pp. 167, euro 17). E sue sono le parole espresse prima a proposito del tempietto di San Mauro presso Gallipoli.
Secondo lo studioso, «i due secoli di storia bizantina della Puglia (871-1071) sono fra i più ricchi di eventi e avvenimenti, come mai più nel corso delle vicende della regione, che hanno forgiato paesaggio, ambiente, cultura, unità, coscienza di appartenenza ed identità storica, da allora connesse stabilmente al mondo orientale e mediterraneo, nel segno di Costantinopoli ».
E poiché questo potrebbe apparire a molti come un giudizio un tantino esagerato, Lavermicocca intende confermarlo quasi enumerando tutto l’enume - rabile, cercando di chiamare a suoi testimoni i Cristi Pantokratori, le Madonne Odegitrie, i santi orientali affrescati sulle pareti di chiese e romitaggi rupestri, o nelle icone disseminate - e sopravvissute - nei luoghi di culto. Non solo Bari, divenuta capitale bizantina, ottenne un invidiabile primato; ma anche le città costiere del Salento conobbero traffici, benessere, istituzioni che rimandavano a Costantinopoli. Con Bisanzio anche la conformazione della Capitanata - grazie all’org anizzazione territoriale voluta dal catapano Basilio Bojohannes (1017-1028) - si rinnovò con la nascita di villaggi-castelli che ne delimitavano le frontiere.
Nino Lavermicocca ci conduce quindi nelle grotte, nei luoghi di una civiltà rupestre in cui occhieggiano benevoli i beati, nei santuari, ma anche negli archivi: alla scoperta di documenti utili a mostrarci quello che lui definisce l’«imprinting bizantino » lasciato nel territorio e durato anche dopo la conquista normanna. Ci guida con la consueta foga a volte troppo accumulativa, propria di chi intende mostrare la sua passione per la sua terra: affastellando catapani, monumenti, documenti, gerarchie, tracce e reperti... Una passione propria di chi riesce a indignarsi ancora per la perdita di memoria e di chi non si stanca ancora a proporre - in questi tempi di vacche magre anche per lo spirito - una rinascita di consapevolezza, nonché nuovi musei che dovrebbero nascere - improbabile - mentre altri, già esistenti, languono, invisibili. Mentre un così grande patrimonio va perdendosi.


Recensione apparsa su “La Gazzetta del Mezzogiorno” di lunedì 13/08/2012

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martedì 11 settembre 2012

L'ISLAM NEL MEDITERRANEO/// Recensione di Federico Cenci apparsa su "Agenzia Stampa Italia" dell'11/09/2012


L'impatto storico dell'Islam sull'Europa raccontato in un libro

postdateiconMartedì 11 Settembre 2012 14:24 | postauthoriconScritto da Federico Cenci
Radio e TV - Interviste

(ASI) Conoscere il passato è esercizio utile a comprendere il presente. E’ in questa ottica che si colloca la lettura del libro“L’Islam nel Mediterraneo” (Capone editore - 2012), scritto dal professor Vito Salierno, uno dei maggiori studiosi di lingue orientali e stimato islamista.

 Il testo, arricchito da citazioni e aneddoti significativi, racconta le vicende storiche scaturite dalla presenza delle potenze arabe nella fascia settentrionale del mar Mediterraneo. Vicende che, abbracciando un periodo che va dagli inizi dell’VIII secolo al XVIII, si caratterizzano per i numerosi scontri tra due civiltà, quella islamica e quella cristiana. Divergenze, incursioni, guerre ma non solo. Questo libro è un’essenziale testimonianza delle influenze filosofiche, scientifiche, artistiche avvenute in quei secoli, le quali hanno contribuito allo sviluppo del mondo islamico e dell’Europa odierni. Vito Salierno ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande rivoltegli in proposito.
Parafrasando il sottotitolo del suo libro - “Incontro-scontro fra civiltà” - le chiedo anzitutto: il rapporto tra Islam ed Europa nel corso della storia corrisponde più a un processo di compenetrazione culturale reciproca o di contrasto?
Si trattò di un processo a due facce: di contrasto politico anche se camuffato sotto l’ombrello della religione che giocò una parte importante dal Cinquecento in poi; di compenetrazione culturale anche se di carattere elitario. Va rilevato che i periodi di guerra tra l’Europa e l’Islam furono di gran lunga inferiori a quelli di pace, ma la storia registra solo quelli: gli scambi commerciali furono intensi e attraverso questi la cultura viaggiava, le notizie si diffondevano, gli uomini di cultura si spostavano, gettando le basi di un’osmosi che darà i suoi frutti. Si parla spesso della conquista araba della Sicilia e della Spagna, per fare esempi di casa nostra, ma ci si dimentica di dire che la Sicilia dei secoli IX-XI e la Spagna dei secoli IX-XV fiorirono solo per l’apporto arabo: la tolleranza a quei tempi era un qualcosa che ancora oggi noi, uomini del Ventunesimo secolo, facciamo fatica a mettere in pratica.
Nell’immaginario collettivo, tuttavia, la presenza islamica in Europa è spesso associata soltanto ai fenomeni del saccheggio e della violenza. Questa visione parziale è dovuta esclusivamente alla superficialità di alcune fonti storiche o anche a strumentalizzazioni?
Le cronache sono sempre state di parte perché riflettono gli stati d’animo e la posizione di chi scrive: esempi? La battaglia di Poitiers, ignorata nelle fonti arabe, è passata alla storia come il salvataggio della cristianità in un’Europa che esisteva solo come riferimento geografico. Le crociate furono intraprese solo per motivi politici, mercantili, sete di potere: nella conquista di Gerusalemme nel 1099 furono massacrate le intere comunità musulmana ed ebraica. Ovviamente gli orrori non furono solo da una parte: il massacro di Otranto nel 1480 (causato dai turchi, NdR) ce lo ricorda. E le stragi dei giorni nostri? Sabra e Shatila, Srebrenica, e tante altre. La situazione del tempo presente non è diversa da quella del passato: sono gli interessi politici (per lo più di lobby finanziarie) che decidono. Ad esempio, l’11 settembre è stato una strage uguale a tante altre: ma ha fatto da cassa di risonanza perché è stata l’America ad essere colpita al cuore.
Quanto l’introduzione del concetto di “Occidente” ha contribuito a generare incomprensione tra Europa e Islam?
Non credo che il concetto di “Occidente”, un’invenzione moderna, abbia generato questo tipo di incomprensione. Credo piuttosto che si sia trattato e si tratti tuttora solo di ignoranza culturale in entrambi i campi: l’Europa, almeno una buona parte, fa fatica ad abbandonare il colonialismo, l’Islam, altrettanto, è sotto il ricatto dei fanatici, dei fondamentalisti, dei sobillatori religiosi, tutti d’accordo pro domo loro anche se con motivazioni diverse o sotto diverse spinte.
Ha accennato alla battaglia di Poitiers (372). Sembra che anche lei intenda ridimensionare due miti in parte radicati in Europa, ossia quella antica battaglia e un’altra più recente, quella di Lepanto (1571). Cosa rappresentarono realmente i due episodi?
I due episodi, anche se differenti, hanno un elemento in comune: il vincitore deve per sua necessità enfatizzare la vittoria, così come lo sconfitto è costretto a minimizzare la sconfitta. Fa parte del gioco politico e tutta la storia, antica o moderna che sia, ne è una dimostrazione.
Intorno alla figura dell’imperatore svevo Federico II è stata spesa molta letteratura, spesso contrastante. Senz’altro si tratta di un sovrano eclettico. Mi pare di capire che nella sua interpretazione storica prevalga l’aspetto tollerante dello “Stupor mundi” rispetto all’Islam, nonostante la feroce repressione dei musulmani che egli attuò in Sicilia.
Federico II è un uomo del suo tempo, anche se un progressista, come diremmo noi oggi. Era sinceramente interessato al dialogo con l’Islam, ma prevaleva in lui la ragion di Stato. Il trasferimento dei saraceni di Sicilia in Puglia fu determinato dalla necessità di porre fine alla guerriglia condotta contro di lui dai musulmani; spostandoli in una zona poco popolata, com’era Lucera a quel tempo, pose fine allo scontro e trattando la comunità saracena con umanità ne fece un’alleata. L’imbiratur – com’era chiamato dalle truppe saracene – diventò non solo il beniamino ma la loro garanzia. Significativo è anche il rapporto di Federico II con l’emiro al-Kamil a Gerusalemme: entrambi sono uomini di cultura, ma anche uomini di realpolitik: si mettono d’accordo per la spartizione di Gerusalemme senza battaglia, anche se biasimati dalle loro fazioni (tuona il Papa per una conquista barattata, si lamentano i musulmani per il cedimento del loro signore). Ad entrambi faceva comodo un accordo: a Federico II interessava il titolo di re di Gerusalemme, motivo per il quale aveva sposato Jolanda di Brienne, regina di Gerusalemme per parte materna, ad al-Kamil interessava non indebolirsi in una guerra e riservare le proprie forze contro un eventuale attacco interno.
Un capitolo del suo libro è dedicato alle affinità tra l’escatologia musulmana e la Divina Commedia. In che modo avvenne l’influsso islamico nei confronti di Dante?
Dante non conosceva le fonti dell’escatologia musulmana, ai suoi tempi non tradotte: la sua conoscenza era quella degli uomini del suo tempo e la vulgata relativa a Maometto considerato non il fondatore di una religione ma di uno scismatico che si è allontanato dalla Chiesa comune; ovviamente Dante era consapevole del contributo che nel medioevo la filosofia araba aveva dato alla civiltà europea. C’è però un testo che Dante certamente conosceva: un Libro della Scala, ritrovato solo nel secolo scorso, che circolava ai suoi tempi in una traduzione francese e latina. Si trattava di una traduzione dal castigliano, fatta in Spagna, a sua volta da un testo arabo perduto intitolato al-Kitab al-Mi’raj, ossia “Il Libro dell’Ascensione”, vale a dire il viaggio celeste di Maometto e la sua visione dei cieli e dell’inferno.
Esistono espressioni della cultura popolare del Meridione, ancora oggi vive, dalle quali riemerge chiaramente la compenetrazione dell’Islam?
Senza entrare nella questione complessa degli influssi linguistici, esistono numerose espressioni di derivazione saracena nel Meridione. A Bari la sagra popolare della “vidua vidue” è connessa alla liberazione della città dall’assedio saraceno nel 1022 con l’aiuto della flotta veneziana del doge Pietro II Orseolo: festa che si svolge nel giorno dell’Ascensione. A Lucera, si svolge dal 1983 un “Corteo storico” con il “Torneo delle Chiavi” per rievocare la sconfitta dei saraceni ad opera di Pipino da Barletta nell’agosto del 1300. A Potenza, nel mese di maggio ha luogo una “processione dei turchi”, una rievocazione della battaglia di Vienna del 1683. Molti anche i detti pugliesi che hanno un riferimento ai turchi, come ad esempio “Ca te pùezze vedé mméne de turchje” (che tu possa vederti in mano dei turchi), o “Ogne mucchje pare turchje” (ogni cespuglio pare un turco), secondo il quale l’ossessione della gente per le scorrerie turche era tale che vedevano turchi dappertutto anche quando non c’era la minima ombra.
Federico Cenci – Agenzia Stampa Italia