L'impatto storico dell'Islam sull'Europa raccontato in un libro
Martedì 11 Settembre 2012 14:24 | Scritto da Federico Cenci
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(ASI) Conoscere il passato è esercizio utile a comprendere il presente. E’ in questa ottica che si colloca la lettura del libro“L’Islam nel Mediterraneo” (Capone editore - 2012), scritto dal professor Vito Salierno, uno dei maggiori studiosi di lingue orientali e stimato islamista.
Il testo, arricchito da citazioni e aneddoti significativi, racconta le vicende storiche scaturite dalla presenza delle potenze arabe nella fascia settentrionale del mar Mediterraneo. Vicende che, abbracciando un periodo che va dagli inizi dell’VIII secolo al XVIII, si caratterizzano per i numerosi scontri tra due civiltà, quella islamica e quella cristiana. Divergenze, incursioni, guerre ma non solo. Questo libro è un’essenziale testimonianza delle influenze filosofiche, scientifiche, artistiche avvenute in quei secoli, le quali hanno contribuito allo sviluppo del mondo islamico e dell’Europa odierni. Vito Salierno ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande rivoltegli in proposito.
Parafrasando il sottotitolo del suo libro - “Incontro-scontro fra civiltà” - le chiedo anzitutto: il rapporto tra Islam ed Europa nel corso della storia corrisponde più a un processo di compenetrazione culturale reciproca o di contrasto?
Si trattò di un processo a due facce: di contrasto politico anche se camuffato sotto l’ombrello della religione che giocò una parte importante dal Cinquecento in poi; di compenetrazione culturale anche se di carattere elitario. Va rilevato che i periodi di guerra tra l’Europa e l’Islam furono di gran lunga inferiori a quelli di pace, ma la storia registra solo quelli: gli scambi commerciali furono intensi e attraverso questi la cultura viaggiava, le notizie si diffondevano, gli uomini di cultura si spostavano, gettando le basi di un’osmosi che darà i suoi frutti. Si parla spesso della conquista araba della Sicilia e della Spagna, per fare esempi di casa nostra, ma ci si dimentica di dire che la Sicilia dei secoli IX-XI e la Spagna dei secoli IX-XV fiorirono solo per l’apporto arabo: la tolleranza a quei tempi era un qualcosa che ancora oggi noi, uomini del Ventunesimo secolo, facciamo fatica a mettere in pratica.
Nell’immaginario collettivo, tuttavia, la presenza islamica in Europa è spesso associata soltanto ai fenomeni del saccheggio e della violenza. Questa visione parziale è dovuta esclusivamente alla superficialità di alcune fonti storiche o anche a strumentalizzazioni?
Le cronache sono sempre state di parte perché riflettono gli stati d’animo e la posizione di chi scrive: esempi? La battaglia di Poitiers, ignorata nelle fonti arabe, è passata alla storia come il salvataggio della cristianità in un’Europa che esisteva solo come riferimento geografico. Le crociate furono intraprese solo per motivi politici, mercantili, sete di potere: nella conquista di Gerusalemme nel 1099 furono massacrate le intere comunità musulmana ed ebraica. Ovviamente gli orrori non furono solo da una parte: il massacro di Otranto nel 1480 (causato dai turchi, NdR) ce lo ricorda. E le stragi dei giorni nostri? Sabra e Shatila, Srebrenica, e tante altre. La situazione del tempo presente non è diversa da quella del passato: sono gli interessi politici (per lo più di lobby finanziarie) che decidono. Ad esempio, l’11 settembre è stato una strage uguale a tante altre: ma ha fatto da cassa di risonanza perché è stata l’America ad essere colpita al cuore.
Quanto l’introduzione del concetto di “Occidente” ha contribuito a generare incomprensione tra Europa e Islam?
Non credo che il concetto di “Occidente”, un’invenzione moderna, abbia generato questo tipo di incomprensione. Credo piuttosto che si sia trattato e si tratti tuttora solo di ignoranza culturale in entrambi i campi: l’Europa, almeno una buona parte, fa fatica ad abbandonare il colonialismo, l’Islam, altrettanto, è sotto il ricatto dei fanatici, dei fondamentalisti, dei sobillatori religiosi, tutti d’accordo pro domo loro anche se con motivazioni diverse o sotto diverse spinte.
Ha accennato alla battaglia di Poitiers (372). Sembra che anche lei intenda ridimensionare due miti in parte radicati in Europa, ossia quella antica battaglia e un’altra più recente, quella di Lepanto (1571). Cosa rappresentarono realmente i due episodi?
I due episodi, anche se differenti, hanno un elemento in comune: il vincitore deve per sua necessità enfatizzare la vittoria, così come lo sconfitto è costretto a minimizzare la sconfitta. Fa parte del gioco politico e tutta la storia, antica o moderna che sia, ne è una dimostrazione.
Intorno alla figura dell’imperatore svevo Federico II è stata spesa molta letteratura, spesso contrastante. Senz’altro si tratta di un sovrano eclettico. Mi pare di capire che nella sua interpretazione storica prevalga l’aspetto tollerante dello “Stupor mundi” rispetto all’Islam, nonostante la feroce repressione dei musulmani che egli attuò in Sicilia.
Federico II è un uomo del suo tempo, anche se un progressista, come diremmo noi oggi. Era sinceramente interessato al dialogo con l’Islam, ma prevaleva in lui la ragion di Stato. Il trasferimento dei saraceni di Sicilia in Puglia fu determinato dalla necessità di porre fine alla guerriglia condotta contro di lui dai musulmani; spostandoli in una zona poco popolata, com’era Lucera a quel tempo, pose fine allo scontro e trattando la comunità saracena con umanità ne fece un’alleata. L’imbiratur – com’era chiamato dalle truppe saracene – diventò non solo il beniamino ma la loro garanzia. Significativo è anche il rapporto di Federico II con l’emiro al-Kamil a Gerusalemme: entrambi sono uomini di cultura, ma anche uomini di realpolitik: si mettono d’accordo per la spartizione di Gerusalemme senza battaglia, anche se biasimati dalle loro fazioni (tuona il Papa per una conquista barattata, si lamentano i musulmani per il cedimento del loro signore). Ad entrambi faceva comodo un accordo: a Federico II interessava il titolo di re di Gerusalemme, motivo per il quale aveva sposato Jolanda di Brienne, regina di Gerusalemme per parte materna, ad al-Kamil interessava non indebolirsi in una guerra e riservare le proprie forze contro un eventuale attacco interno.
Un capitolo del suo libro è dedicato alle affinità tra l’escatologia musulmana e la Divina Commedia. In che modo avvenne l’influsso islamico nei confronti di Dante?
Dante non conosceva le fonti dell’escatologia musulmana, ai suoi tempi non tradotte: la sua conoscenza era quella degli uomini del suo tempo e la vulgata relativa a Maometto considerato non il fondatore di una religione ma di uno scismatico che si è allontanato dalla Chiesa comune; ovviamente Dante era consapevole del contributo che nel medioevo la filosofia araba aveva dato alla civiltà europea. C’è però un testo che Dante certamente conosceva: un Libro della Scala, ritrovato solo nel secolo scorso, che circolava ai suoi tempi in una traduzione francese e latina. Si trattava di una traduzione dal castigliano, fatta in Spagna, a sua volta da un testo arabo perduto intitolato al-Kitab al-Mi’raj, ossia “Il Libro dell’Ascensione”, vale a dire il viaggio celeste di Maometto e la sua visione dei cieli e dell’inferno.
Esistono espressioni della cultura popolare del Meridione, ancora oggi vive, dalle quali riemerge chiaramente la compenetrazione dell’Islam?
Senza entrare nella questione complessa degli influssi linguistici, esistono numerose espressioni di derivazione saracena nel Meridione. A Bari la sagra popolare della “vidua vidue” è connessa alla liberazione della città dall’assedio saraceno nel 1022 con l’aiuto della flotta veneziana del doge Pietro II Orseolo: festa che si svolge nel giorno dell’Ascensione. A Lucera, si svolge dal 1983 un “Corteo storico” con il “Torneo delle Chiavi” per rievocare la sconfitta dei saraceni ad opera di Pipino da Barletta nell’agosto del 1300. A Potenza, nel mese di maggio ha luogo una “processione dei turchi”, una rievocazione della battaglia di Vienna del 1683. Molti anche i detti pugliesi che hanno un riferimento ai turchi, come ad esempio “Ca te pùezze vedé mméne de turchje” (che tu possa vederti in mano dei turchi), o “Ogne mucchje pare turchje” (ogni cespuglio pare un turco), secondo il quale l’ossessione della gente per le scorrerie turche era tale che vedevano turchi dappertutto anche quando non c’era la minima ombra.
Federico Cenci – Agenzia Stampa Italia
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