Le ballate dei briganti
Nigro alla scoperta dei testi degli antichi cantastorie
di Anita Preti
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C’è la storia di Ciro Annicchiarico, il prete
brigante di Grottaglie fucilato sulla pubblica piazza, a Francavilla Fontana,
nel febbraio 1818; c’è la “bellissima istoria” delle prodezze di Angelo Del
Duca capobrigante salernitano specializzato in ruberie perpetrate solo a danno
dei ricchi (per poi donare il bottino ai poveri); c’è la “crudelissima istoria”
di Carlo Rainone, nolano, che di prodezze ne esibiva altre: un curriculum di
167 omicidi.
C’è tutto e di più, su banditi, briganti e
fuoriusciti dell’Italia post-unitaria nel libro “Ascoltate, signore e signori”
pubblicato da Capone, un autentico gioiellino della letteratura
post-risorgimentale affidato dall’editore alle sapienti cure di Raffaele Nigro.
Lo scrittore lucano, Premio Campiello con “I fuochi
del Basento”, conquistato nel 1987 (anno di svolta nella produzione di Nigro),
si è molto divertito, lo si percepisce, nel realizzare questo lavoro
finalizzato a raccontare sì le gesta dei briganti ma, per una volta, non dalla
parte degli storici o in presa diretta (un’autobiografia, come quella di
Carmine Crocco) bensì dalla parte del popolo e, più precisamente, dei
cantastorie o cantacronache, i giornalisti dell’epoca che al popolo sapevano
parlare.
Nessuno oggi li ricorda più se non in Sicilia
dove artisti come Franco Trincale (tra l’altro presidente dell’associazione Il
Mondo dei Cantastorie) hanno provveduto a tener desta una tradizione che Nigro
configura ormai più come un “prodotto letterario” che un “documento storico”.
Il cantastorie, erede dei trovatori del Medioevo,
era colui che girava di piazza in piazza raccontando indifferentemente o storie
antiche o fatti recenti, perlopiù tragici, aiutandosi con telone che srotolava
sulla piazza affollata oppure con una cartellonistica su cui era raffigurato lo
svolgersi degli eventi; il tutto sottolineato dal suono di uno strumento a
corde. A metà degli anni Cinquanta, sostengono gli esperti, la figura del
cantastorie soccombe sotto il peso dell’avvento della televisione e dei suoi
notiziari che portano il mondo in casa.
Viene così restituita al vero valore letterario
l’opera del cantastorie: del resto, al termine della rappresentazione, il
girovago cantore della vita quotidiana passava tra i suoi ascoltatori con il
cappello teso o con un piattino per raccogliere, al buon cuore degli astanti,
un piccolo obolo (quasi un progenitore del canone televisivo) ma nello stesso
tempo si industriava per vendere il libro a stampa dei versi appena recitati o
una serie di fogliettini con lo stesso contenuto.
Perché di versi si trattava: quartine ed ottave
di endecasillabi che Raffele Nigro ha ripescato privilegiando per il libro (la
cui prefazione è firmata da Valentino Romano) cinque ballate sulle tante; non
personali preferenze ma il lavoro di un ricercatore appassionato e padrone
della materia come quando, nel caso della “Istoria della vita e morte di Pietro
Mancino, capo dei banditi” (nato sul Gargano, capitano di ventura al soldo
prima dei Francesi e poi dello Stato pontificio ma comunque in cuor suo
brigante), collaziona più fonti, ovvero due note raccolte, una italiana e
l’altra straniera, per cercare somiglianze e differenze.
Raffaele Nigro ha un padre reale (che spegnendosi
ai piedi di un albero, in campagna, regalò poesia a chi restava) ed alcuni
padri putativi; uno è stato il grande storico Tommaso Pedio, suo professore; un
altro Ernesto De Martino, punto di riferimento per le ricerche; un altro lo
storico della letteratura Carlo Dionisotti: in tre gli furono d’esempio sul
significato da dare alla parole uomo, terra, radici. Lo ha mandato a memoria e
ne fa buon uso anche in questo bel libro.
Recensione apparsa su “Nuovo Quotidiano di Puglia di sabato 11 agosto 2012
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