Raffaele Nigro cantastorie: briganti se more (non sempre)
di Felice Laudadio jr.
Chiedete a un bambino di oggi: “lo sai cos’è un cantastorie?” e risponderà con un’alzata di spalle, sempre se distoglierà lo sguardo dal videogioco che compulsa tenacemente. Non ci sono più i cantastorie di una volta, dirà la gente… e nemmeno le stagioni sono più quelle e i politici sono tutti ladri e alle svedesi piace l’uomo italiano e via con i soliti luoghi comuni. Eppure, non è vero che sono estinti. Chi è un cantastorie? Non molto tempo fa, lo è stato il grande autore di liscio Secondo Casadei, che ha composto la ballata del più famoso brigante romagnolo. “Questa è la triste storia di Stefano Pelloni, in tutta la Romagna chiamato il Passatore. Odiato dai signori, amato dalle folle, dei cuori femminili incontrastato re..”, “…sul Lamone un giorno morì per tradimento. Portato lungo i borghi per farlo disprezzare, ci fu per lui chi pianse, chi un fiore gli gettò”. Un fuorilegge per bene, nobilitato da Giovanni Pascoli: “re della strada, re della foresta”. Più vicino, negli anni Settanta, si è calato nei panni del cantastorie il cantautore napoletano Eugenio Bennato, ispirato dalla tradizione popolare del Mezzogiorno antisabaudo nella cantata “Brigante se more” (“Ommo se nasce, brigante se more, ma fino all’ultimo avimma sparà e si murimme menate nu sciore e na preghiera pe’ sta libertà!”). Tutti lo credono un brano storico autentico, invece “è un’opera di poesia, un’invenzione con grande rispetto della lezione della musica popolare”. Un cantastorie oggi è Raffaele Nigro, che raccoglie versi e ballate del brigantaggio millenario nel Sud in un volume dell’editore leccese Capone, “Ascoltate, signore e signori. Ballate banditesche del Settecento meridionale”, 198 pag. 16 euro, collana Carte scoperte, storie e controstorie.
È anche un moderno cantastorie Raffaele, giornalista, scrittore affermato, cultore di storia del Mezzogiorno, uomo del Sud e testimone di quella generazione di passaggio che ha visto all’opera le ultime voci della cultura orale popolare, cancellate dall’avvento dei media e della comunicazione globale. Come ricorda nell’introduzione, ancora “al tempo in cui la televisione era appena nata”, il cantastorie “vagabondava per paesi” alla chiusura del raccolto, tra primavera ed estate, offrendo uno spettacolo in cambio di una modesta ricompensa, raccolta alla fine in giro col piattino. “Restava uno o due giorni e poi via, il tempo di farsi ascoltare nelle piazze e nei chiassi”. Recitava, cantava, salmodiava storie in rima. Chiare fantasie che il pubblico ingenuo prendeva per fatti veri e casi di cronaca tanto mitizzati da sembrare fantastiche. Si presentava “da solo o in compagnia di un assistente, a volte la moglie”. A gran voce, passando nei vicoli, richiamava l’attenzione dei popolani, che si raccoglievano nel tardo pomeriggio davanti alla sua scena: un telone o un cartellone unico, dipinto a riquadri separati, come i fumetti, ma anche dei pannelli che indicava con una bacchetta o sostituiva man mano, secondo il racconto. Declamava o cantava. E incantava spiriti semplici.
“Ascoltate, signore e signori / questa storia di un brutto destino / che gli amanti Rosetta e Peppino / a una morte crudele portò”. Nigro richiama questa quartina in metrica, ascoltata nella sua Melfi tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Storie ridotte all’essenziale fatto-misfatto, personaggi tagliati secchi, senza sfumature, bianco o nero, niente grigio, come nella sceneggiata: il buono era solo buono, il cattivo, perfido e basta. Fatti nudi e puri, lineari, anche molto sanguinari, perché la gente dopo la fatica aveva voglia solo di distrarsi, di sostenere chi meritava e di inveire contro i malamente. Accorreva per provare la commozione di veder morire nelle agonie la protagonista”, scrive Mastriani ne “I misteri di Napoli”. “Vicende tragiche, epiche, liriche, grottesche o comiche– ricorda Raffaele – ma comunque esemplari, di sfortunati che si erano dati alla macchia, di antichi cavalieri o di innamorati che avevano incontrato una tragica fine”.
Cantastorie contemporaneo dice di Nigro, nella prefazione, Valentino Romano, per le cinque ballate ricostruite e commentate nel volume, avventure e venture di briganti tra 1600 e fine 1700: il grottagliese Don Ciro Annicchiarico, Pietro Mancino di Lucera e i campani Antonio di Santo di Solopaca, Angelo del Duca del Salernitano e Carlo Rainone, l’unico pessimo soggetto del quintetto, efferato grassatore della provincia di Napoli. “Questa è la triste storia…” canta tuttora Raoul Casadei, mentre lo scrittore melfitano si appassiona e fa appassionare della “Bellissima istoria delle prodezze ed imprese di Angiolillo del Duca“, che davvero toglieva ai ricchi per dare ai poveri, visto che tra le sue vittime non si sono annoverate che nobili, ricchi e possidenti. Venne giustiziato, come l’Annicchiarico, ex sacerdote, brigante per amore, fucilato in piazza a Francavilla Fontana. La “Crudelissima istoria di Carlo Rainone dove s’intende la Vita, Morte, ricatti, uccisioni, ed imprese da lui fatte”, si conclude con la cattura e l’esecuzione. Mancino, invece, ebbe il beneficio della morte naturale.
Resta la “Istoria della vita, uccisioni ed imprese di Antonio di Santo”. “Al suo paese andato / fu da molti nemici minacciato”. Le sue gesta venivano raccontate ben oltre il primo dopoguerra del ‘900, a sentire Benedetto Croce. L’autore è Nicola Bruno, detto “Rinaldo del Molo”, cantautore del primo ‘800. La ballata, 67 ottave in endecasillabi, inciampa qua e là e s’inceppa nella cadenza nei versi, ma Nigro la considera espressione “di una poesia primitiva e carica di suggestione” e sottolinea l’efficace impiego del dialetto, specie nei dialoghi e nelle “smargiassate del protagonista”. Narra di Antonio, beneventano, che nel 1701 aderì ad una cospirazione contro il viceré spagnolo e fu costretto alla clandestinità, tra macchie e grotte. Non era uno stinco di santo, ma nella carriera brigantesca le vendette personali sembrano prevalere sulla malvivenza tout court. Un ribelle violento più che un delinquente, un partigiano, addirittura. E alla fine, per una volta, un brigante che non “more acciso”.
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