Con la locuzione dieta mediterranea generalmente la medicina tradizionale intende un regime alimentare particolare costituito di pasta (non troppa), pane (non troppo), frutta e ortaggi (in quantità), moderatamente arricchito di carne bianca e pesce; il tutto condito con olio d’oliva. È concesso un bicchiere di vino rosso a pasto.
Si ritiene che tale modo di alimentarsi sia il più sano oggi conosciuto, in quanto gli studi epidemioligici degli ultimi 40-50 anni hanno dimostrato che le popolazioni mediterranee soffrono meno di quelle nordeuropee e americane di malattie cardiovascolari e in particolare di cardiopatia ischemica; in più si ritiene che tale dieta riduca il livello ematico di grassi ed aumenti il livello di antiossidanti come le vitamine C ed E. È stato, inoltre, osservato che il 40% delle calorie assunte dalle popolazioni mediterranee viene dai lipidi, cioè in particolare dall’olio d’oliva.
Nel 1970, lo studioso americano Anchel Keys diede alle stampe un libro (Coronary Disease in Seven Countries) che suscitò grande scalpore: in esso si affermava che in Grecia e in Italia i decessi per malattie cardiovascolari erano molto ridotti rispetto agli Stati Uniti d’America. Keys attribuì gran parte del merito all’uso che si faceva in Italia, in Grecia ed in altre regioni mediterranee, quasi esclusivamente dell’olio di oliva. Altri studi successivi, anche italiani, hanno confermato le sue scoperte e alla fine si è giunti alla conclusione che per difendersi dalle malattie tipiche della civilizzazione, della civiltà della fettina da noi scoppiata dopo la seconda guerra mondiale, si doveva ricorrere ad una dieta contenente un basso livello di grassi saturi e ricchi, invece, di acidi grassi poli- o monoinsaturi, alti livelli di carboidrati complessi e fibre. Andava utilizzato l’olio d’oliva. In parole povere si rivalutavano i farinacei e l’alimentazione povera dei nostri nonni veniva promossa a dieta ideale. Nel 1995, Keys pubblicava Mediterranean Diet and Public Health: Personal Reflection, confermando le sue teorie già esposte in precedenza.
Ma chi era Ancel Keys? Ancel Benjamin Keys era uno scienziato americano, nato il 26 gennaio 1904 e morto il 20 novembre 2004, che aveva passato la sua vita a studiare l’importanza della dieta, del tipo di alimentazione di certe popolazioni, sulla salute dell’uomo. In particolare si era reso conto che i grassi contenuti in diete differenti, in alimentazioni differenti, portavano a risultati clinici diversi. Visse per una quarantina d’anni a Pioppi di Pollica nel Cilento dove si alimentò di piatti poveri basati sulle verdure, sui legumi, sulle paste fatte in casa, sul pesce e assumeva solo il grasso dell’olio d’oliva, alimentazione che ha avuto la sua importanza se gli ha fatto superare il secolo di vita; anche se bisogna oggi affermare che, evidentemente, il suo organismo era immune dal rischio oncologico, da quello diabetico, etc. Come egli stesso scriveva nel 1977, si nutriva di pasta in many forms, leaves sprinkled with olive oil, all kind of vegetables in season, and often cheese, all finished off with fruit and frequently washed down with wine [vari tipi di pastasciutta, ortaggi a foglia conditi con olio di oliva, tutti gli ortaggi di stagione, spesso il formaggio, la frutta che conclude il pasto e il vino che lo annaffia!]. Era l’alimentazione tradizionale del Cilento, dove si era stabilito, come lo era più o meno quella di tutte le popolazioni influenzate dall’areale dell’oliivo intorno al Mediterraneo. Le foglie (leaves) erano state da sempre la risorsa più a buon mercato del territorio e se, questa, non poteva costituire da sola la base fondamentale dell’alimentazione, era necessaria a determinare la sensazione di sazietà. Era anche utile, cosa importantissima, alla buona digestione. Se le popolazioni interessate avessero potuto nutrirsi tutti i giorni con la saporita e sostanziosa spagnola olla potrida, o con il napoletano pignato ‘maretato, l’avrebbero fatto volentieri, ma non potevano – almeno in quantità da saziarsene – ed usarono il loro ingegno gastronomico per render buoni, prelibati, i cereali, soprattutto i loro derivati, e le foglie, sia coltivate che agresti.
Oggi, più del 50% degli ortaggi freschi conosciuti provengono da specie americane, da noi introdotte dopo la scoperta dell’America ed affermatesi nel corso dei secoli successivi. Osservando bene, però, salta all’occhio il fatto che dall’America sono arrivati solo frutti (pomodori, peperoni, zucche, zucchine – fanno eccezione le melanzane), tuberi (patate, batate, topinabur), semi (fagioli e fagiolini). L’America non ci ha mandato un solo ortaggio da foglia. Cicorie, cavoli, bietole, spinaci, cardi sono tutti ortaggi del Vecchio Mondo, dove la loro colltura è stata praticata sin dall’antichità più remota. A tale proposito, Plinio sottolinea l’importanza storica e sociale della coltivazione degli orti e ricorda con nostalgia i tempi in cui erano molto ammirati “i giardini delle Esperidi, e del re Adone, e del re Alcinoo; e poi anche i giardini pensili fatti allestire da Semiramide o da Siro, sovrano dell’Assiria”. Degli orti Plinio descrive anche le tecniche colturali. Nel suo secolo si consumavano, come attestato da Apicio, bietole, cavoli, cicorie, lattughe, cardi, ortaggi da foglia, anche se non erano sconosciuti prodotti come le rape e le carote. Non parliamo poi delle bulbose - cipolle, porri, agli - ch’erano prodotti di largo consumo in Egitto e nelle civiltà mesopotamiche. Lo stesso Plinio ci dice poi che il burro era sì conosciuto, ma veniva adoperato soltanto come medicamento.
Avvicinandoci ai nostri tempi e come puntigliosamente dimostrato da Emilio Sereni nel 1958, i Napoletani, prima dell’epiteto di mangiamaccheroni si portavano appresso quello di mangiafoglia e ancora oggi nell’Italia meridionale il corrispondente di ortaggio è foglia o foglie; sono foglie i cavoli (anche se poi se ne mangiano i racemi detti broccoli), le cime di rapa, le cicorie (anche se si consumano solo le punte); semmai ci sono due categorie generali: foglie coltivate e foglie agresti, cioè selvatiche.
Ai primi del secolo XVII, nel 1614 per l’esattezza, il modenese Giacomo Castelvetro, che era fuggito dalle prigioni di Venezia per sottrarsi all’Inquisizione ed era riparato in Inghilterra come rifugiato politico, avendo nostalgia della sua terra scrisse un trattato che intitolò: “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano”. Non usa il termine ortaggio, ma parla di “erbaggi”, che può benissimo tradurre il termine “foglia”, e annota che “gl’Italiani mangiano più erbaggi e frutti che carne”; per due motivi: primo perché “la Bella Italia non è tanto doviziosa di carnaggi”, secondo perché in Italia “nove mesi dell’anno caldo vi fa” e si preferiscono i “frutti e [gli] erbaggi che ci rinfrescano e non ci riempiono di tanto sangue”.
Tutto questo per dire che pur riconoscendo i buoni effetti sulla salute della dieta mediterranea, qui non si vuole in nesssun modo imporre regole salutiste; si propone soltanto una raccolta delle ricette più appetitose della tradizione o delle tradizioni mediterranee che ancora sopravvivono e che, dato il loro successo anche sulle nuove generazioni, sembrano ancora ben radicate. Non si fa distinzione, come avviene nei menu dei ristoranti, tra antipasti, primi, secondi, etc. La tradizione non ne faceva. Inoltre, per la realizzazione di alcune ricette, come il farro alla romana, la cicoria selvatica alla salentina, etc., si ricorre all’impiego di grassi animali che conferiscono alla pietanza un sapore particolarmente gradevole.
Tuttavia l’autore e l’editore non possono non riconoscere l’importanza che all’alimentazione mediterranea tradizionale ha dato l’UNESCO, decidendo di tutelarla ufficialmente come patrimonio immateriale dell’umanità.
Salvo diversa indicazione, le ricette riportate in questo libro sono tutte per quattro persone.
La cucina mediterranea, Giorgio Cretì, Capone Editore, €12,00, isbn 9788883491306, pp. 160, a colori
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