Ferite aperte:
le tante cause del divario postunitario del Mezzogiorno
Una guerra tra ultimi, quella tra i comuni certamente poveri ma popolosi e quelli oggettivamente piccoli ma solo presumibilmente poveri. I primi erano quasi tutti nel Mezzogiorno e la miseria la conoscevano davvero. Quelli con meno di mille abitanti caratterizzavano il Nord, specie la Lombardia e la povertà spesso non li toccava più di tanto. In genere, anche i municipi del Centro e del Lazio avevano pochi abitanti, capitale a parte. Quello della guerra tra poveri – parliamo degli ultimi decenni del ’900 – è un nuovo profilo della querelle sempre attuale tra Nord e Mezzogiorno d’Italia.
Un nuovissimo saggio, proposto da una casa editrice salentina, la leccese Capone e da un ricercatore pugliese, Angelo Panarese, già sindaco di Alberobello, in provincia di Bari, ha il merito di fornire una prospettiva inedita tra i suoi svariati approcci alla questione meridionale.
È il divario dei finanziamenti pubblici post unitari che ha allargato il solco, mai più colmato, tra Centro-Settentrione e Sud, aggiungendosi alle cause classiche che pure vengono ampiamente trattate in questo volume: Ferite aperte. Il crollo del Regno delle Due Sicilie, Capone Editore, di Cavallino (Lecce), 176 pagine 13 euro.
Secondo un quadro riassuntivo, solo poche regioni ottennero grandi risorse in quell’Italia che stava diventando un grandissimo cantiere aperto. La spesa media nel quinquennio 1994-98 riconosce alla Lombardia 32,97 lire per abitante, al Piemonte 29,71, al Lazio addirittura 93 e ben 71 alla Liguria. Di contro, Basilicata e Abruzzo Molise non raggiunsero neanche 9 lire per ogni cittadino, Sicilia e Sardegna si fermarono a poco più di 19, Puglia 12,54, Calabria 11,26. In controtendenza la Campania, che sale a 33 lire per residente, più dei fondi ripartiti nell’area padono-veneta. Così le altre: Veneto 21, 90, Toscana 37,56, Emilia Romagna 20,78, Marche 17,59, Umbria 14,81.
Lo Stato italiano assunse funzioni imprenditoriali dirette e sollecitò attività pubbliche come mai in precedenza avevano fatto i tanti governanti preunitari, anche nel Nord austriacante. Due leggi furono fondamentali nell’approfondire il divario, quella del 1876 che appunto aiutava i comuni con una popolazione inferiore a mille abitanti e la “Coppini”, del 1886, che introducendo l’istruzione elementare obbligatoria a carico dei Comuni, stabiliva il concorso dello Stato solo a determinate condizioni. Nell’uno e nell’altro caso, i centri del Nord riuscirono a far interpretare la scarsità di popolazione a loro vantaggio, come indice di bisogno, nonostante i redditi medi più elevati. Quelli del Sud, generalmente molto popolosi ma realmente arretrati, restarono al palo. E non andò meglio nell’edilizia scolastica.
A questi fattori di ritardo endemico e ulteriormente ignorato da leggi che avrebbero voluto correggerlo ma furono efficaci esattamente al contrario, si associarono tantissimi altri, tra i quali Panarese mette in risalto i profili economici, che incisero sul sottosviluppo delle regioni meridionali accanto a quelli sociali e storico-militari del brigantaggio meridionale, ampiamente investigati. Più che nella “piemontesizzazione” forzata del Mezzogiorno, queste cause di ritardo derivano dall’affermazione di una scala di valori capitalistici internazionali che prese a caratterizzare l’economia europea proprio negli ultimi quarant’anni del 1800. Il Nord (la pianura padana, in particolare), recependo l’esigenza di una rapida industrializzazione, si inserì nella mini-globalizzazione che si realizzò in quell’epoca su scala europea. Il Mezzogiorno agrario non entrò invece nello scenario dell’economia continentale e ricevette un colpo di grazia dal protezionismo doganale che avrebbe dovuto tutelare le merci, ma che si rivelò fatalmente controproducente. Provocò da un lato la dipendenza totale dall’esterno per l’acquisto di prodotti industriali sempre più cari e indisponibili in loco, per la mancanza di aziende nel Sud. Dall’altro, l’aumento dei prezzi, conseguente anche all’imposizione di dazi finì per sottrarre mercati e competitività all’agricoltura meridionale. Che non si riprese.
Colpa del Nord? Certo. Governo unitario miope? Non c’è dubbio, ma la classe dirigente meridionale dell’epoca fu miope e ottusa, oltre che gattopardesca, come denunciato da Tomasi di Lampedusa, non certo da un nordista. Avrebbe dovuto fare autocritica e correre ai ripari per tempo, ma non lo fece. Il solco diventò più profondo e l’Europa si fece già allora più lontana.
Industrializzazione mancata, ritardata. Ignorata dagli stessi meridionali. Sarà un caso che a cavallo del ’900 le aziende e le imprese di molte città meridionali avevano ragioni sociali e proprietari stranieri? Cognomi svizzeri, inglesi, austriaci, francesi. Materia da approfondire, se non è stato già fatto.
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