di Felice Laudadio jr.
Non c’era da scherzare coi fanti e tanto meno coi briganti, dopo l’unità d’Italia. Da lasciare stare gli uni e gli altri, che a misurarli oggi non si sa ancora quali fossero i buoni e quali i cattivi. Troppo facile tirare una linea sulla lavagna e comunque si sbaglierebbe, sia a considerare combattenti per la libertà gli insorgenti meridionali e massacratori gli “italiani” quanto, al contrario, a giustificare gli eccessi della repressione sabauda e criminalizzare la condotta brigantesca. Torti e ragioni non stavano da una parte. La celebrazione del 150° dell’unità, con la lettura condivisa impressa dal presidente Napolitano, ha messo fuori gioco le punte estreme di due schieramenti che animano contrasti bipolari tra le fonti storiografiche. Filounitari contro neoborbonici. Gaetano Salvemini definiva “ciclopica” l’opera governativa di consolidamento dell’unificazione nazionale. I revisionisti riservano invece fiumi d’inchiostro alle stragi ad opera dei soldati: a cominciare dalla spedizione punitiva di Pontelandolfo, nel Matese, primo grave episodio. Il 14 agosto 1861, col ferro, col fuoco e con qualche barbarie di troppo i bersaglieri vendicarono l’eccidio di 45 dei loro: i cittadini vennero sorpresi nel sonno, le chiese assaltate, le case saccheggiate poi incendiate con chi ancora vi dormiva. In alcuni casi, si attese che i civili uscissero dalle abitazioni in fiamme per sparare loro appena allo scoperto. Lo ha raccontato Carlo Margolfo, uno dei militari che parteciparono.
Ma se la
storia deve essere collezione di fatti, secondo la lezione di Vincenzo Cuoco, ecco sùbito la faccia opposta di un dramma insanguinato nel quale vittime e carnefici si scambiavano i ruoli. Lo storico acquavivese Antonio Lucarelli, nel suo classico sul brigantaggio meridionale, ricostruisce l’ingresso della banda del Sergente Romano a Gioia del Colle, nell’estate 1861, a un anno dall’impresa dei Mille. L’irruzione scatenò la violenza dei lealisti borbonici e fu caccia spietata ai
liberali, voluttà selvaggia del sangue, più forte di ogni umanità. Le più furenti eccitatrici di rovina sono le donne, aggiunge. Marianna,
capeggiando una frotta di scapigliate megere, agita un fazzoletto bianco:
viva Francesco II, abbasso Vittorio. Rosa brandisce una falce. Angela incita la folla con urla selvagge.
Nelle strade si fa scempio di cadaveri. Caterina, moglie di un fuoriuscito, imbeve il pane nel sangue del garibaldino Vincenzo Pavone e lo mastica, davanti alla folla plaudente. Anche Margherita intinge le dita. Troppo sangue. La reazione dei piemontesi sarà altrettanto feroce, sia pure con meno eccessi.
Chi ritiene di assolvere militari o scampaforche dal peccato, scagli la prima pietra, altrimenti scelga l’interpretazione equilibrata di quel periodo proposta nel volume “Fanti e briganti dopo l’unità”, novità Capone (Lecce), 144 pag. 12 euro, da Josè Mottola, giuslavorista del foro barese a suo agio tra i documenti storici. La tesi? Non solo vittime i soldati, ma neanche carnefici spietati di gusto. Né resistenti ideologicamente motivati, ma nemmeno criminali e basta i briganti postunitari. Non trasfiguriamo questi ultimi in partigiani, perché tradiremmo il significato del percorso unitario, ma neppure è il caso di condannarli acriticamente, sarebbe come fucilarli sul campo ancora una volta. Il paradosso è che la plebe “
non si batteva per la libertà ma per la conservazione”, scrive Lucarelli, mentre i soldati rappresentavano uno Stato più avanzato di quello borbonico, più “democratico”, di stampo europeo. Non ci si lasci fuorviare, infatti, da chi farnetica del Mezzogiorno preunitario come un’isola felice, sommersa dallo tsunami sabaudo: è consolatorio ritenere che sotto i Borboni il Sud fosse un eden e non la plaga arretrata e feudale che era, malgovernata da un regime paternalistico e alla mercè di un ufficialato fellone. Le masse contadine dalla Sicilia alla Puglia appoggiarono Garibaldi, po la piemontesizzazione forzata – colpa storica imperdonabile – si aggiunse a ravvivare il brigantaggio, endemico nel Mezzogiorno, alle componenti della
miscela esplosiva che Mottola indica nel
legittimismo borbonico, nell’appoggio della gerarchia ecclesiastica reazionaria, nello scioglimento degli eserciti napoletano e garibaldino, che lasciò nelle strade migliaia di sbandati e nel
la leva obbligatoria, che provocò la renitenza.
Non è singolare che contro l’unificazione si schieri ferocemente anche la storiografia leghista? Opposti su tutto, il Settentrione separatista e il Sud neomeridionalista si ritrovano uniti nella strenua difesa del ribellismo postunitario. Basterebbe questo per prendere le distanze da un’apologia del presunto partigianato brigantesco (non evitavano di depredare nemmeno quei contadini in nome dei quali oggi si dice combattessero). E’ curioso anche che i commentatori progressisti piangono allo stesso tempo i patrioti liberali della Repubblica Romana, sterminati dai francesi in nome del Papa Re e il popolo meridionale antiliberale, che tre lustri dopo voleva rimettere sul trono i Borboni sostenuti dal Papa, guarda un po’, per giunta lo stesso del 1849: Pio IX.
Ancora Lucarelli sostava che
la plebe non aveva ideali moderni, era ribellista e conservatrice, antiborghese per difendere gli usi civici e i terreni demaniali. Altro errore sabaudo: lasciare che borghesi rampanti e i possidenti mettessero le mani e i titoli di proprietà su aree che per il popolo minuto costituivano una modesta forma di sostentamento, se non altro per fare legna.
A giudizio di Valentino Romano, nelle conclusioni, Josè Mottola ha
il merito, attraverso una documentata e articolata ricerca, di fare il quadro dello scontro nella Puglia e nelle Murge tra briganti ed esercito. Il caso Puglia è paradigmatico di quello più ampio di tutto il Sud: convivono infatti nel brigantaggio pugliese, come in tutto il brigantaggio postunitario, personaggi motivati da grandi idealità e individui sospesi tra la patologia criminale pura e la delinquenza da pollaio; così come tra i fanti si possono osservare atteggiamenti e sensibilità contrastanti e contrapposti. Ma è proprio nella coesistenza di tali contraddizioni che può esserci una delle chiavi di lettura del ribellismo postunitario delle classi subalterne e della sua repressione: tutti protagonisti e comparse di una rappresentazione tragica sul proscenio delle nostre terre.E proprio l’ammissione dell’esistenza, nei fatti d’arme e nelle stanze del palazzo, di anime e motivazioni diverse può essere il primo punto di condivisione dal quale partire per un’analisi serena e pacata che tenga lontano il tifo da stadio e gli eccessi tribunizi delle diverse scuole di pensiero.
da http://libri-bari.blogautore.repubblica.it/2012/05/05/fanti-e-briganti-nel-mezzogiorno-postunitario/