Viva ‘o Rre! Tutt’altro che soldati sgarrupati
Valorosi, impavidi e traditi. Chi? I soldati di Franceschiello, secondo una lettura storiografica smaccatamente di parte,
sia detto a scanso di equivoci. Lo riconosce per primo lo stesso Orazio Ferrara da Pantelleria (vive in
provincia di Salerno), autore di un libro
polemico uscito per la prima volta nel 1997 e confortato da un insperato successo, soprattutto nelle
province napoletane.
Oggi lo
ripropone, aggiornato e integrato, in un volume l’editore Capone di Lecce: “Viva ‘o Rre”, 136 pagine 13 euro.
Si tratta
di una rapida ricostruzione
filoborbonica della tragedia del brigantaggio
meridionale, che insanguinò per quasi dieci anni il Mezzogiorno e impegnò
severamente quasi metà del nuovo esercito di leva del Regno italiano.
Fin da
bambino, l’autore tifava per i borbonici, quell’esercito sgangherato – nella
considerazione dei più – di Franceschiello, così come tanti sono dalla parte
dei nativi americani. Scotennavano i pionieri e le loro frecce, non facevano
differenze tra uomini, donne e bambini, ma erano i buoni e avevano ragione.
Come direbbe Enzo Biagi: ammazzavano, ma
solo un po’; il giornalista emiliano amava ripetere l’esempio del fidanzato
che cercava giustificazioni: la mia
ragazza è incinta, ma appena appena.
Ferrara confessa lealmente di non
essere imparziale nell’esaltazione
della fazione borbonica. È stato sempre da quella parte, ammette, gli bruciano
ancora le lezioni subite da ragazzo, quando gli
veniva insegnato che i soldati del re delle Due Sicilie valevano poco ed erano
pure dei vigliacchi, perché pur
essendo in numero sempre maggiore scappavano davanti a pochi garibaldini.
Dice che da allora ha preso per reazione a parteggiare inconsciamente per i
soldati napolitani, aiutato dalla sua inclinazione a schierarsi sempre con le cause perse, sensibile al mito
dell’ultima barricata.
C’è da
pensare, quindi, di trovarlo a Masada con gli ebrei assediati dalle coorti di
Flavio Silva, al fianco di Romolo Augustolo travolto dai barbari alla fine
dell’impero romano. Sarebbe stato con gli Indiani nel Far West, con i
Vietnamiti del Sud nel 1975 e, magari, a puntellare gli ultimi pezzi del Muro
nel 1989.
Battute a
parte, questo è il libro giusto per chi voglia apprendere la Storia dell’unificazione dal punto di vista
degli sconfitti, rimpiangendo il loro valore
sprecato. A cominciare dalla battaglia di Calatafimi, che il generale Landi riuscì a perdere,
abbandonando il campo, quando aveva tutti gli strumenti per vincere. I
Cacciatori del maggiore Sforza avevano fatto meraviglie sul pendio terrazzato
di Pianto dei Romani, ma il superiore, rimasto prudentemente in paese col
grosso delle truppe, richiamò indietro i coraggiosi combattenti partenopei, che
subirono più perdite nella ritirata disordinata – compreso un obice perso da un
mulo – che nei corpo a corpo coi Mille.
Da lì in
avanti alla via così, scontro dopo scontro, i napoletani sempre frenati e i garibaldini aiutati, non solo dalla sorte.
Sostenitore
generoso del valore dei reparti borbonici, Ferrara sottovaluta quanto meno le difficoltà “tecniche” con le quali si
dovettero misurare i napoletani davanti ai volontari di Garibaldi. Furono
quelle riscontrate da altre truppe regolari – gli austriaci più volte e nel
1870 perfino i prussiani – nell’affrontare avversari che non avanzavano al
passo a ranghi compatti, ma assaltavano, alla
garibaldina, correndo con la baionetta inastata, evitando di subire diverse
scariche di fucileria, vista la lentezza nel ricaricare i lunghi fucili
dell’epoca. Di quella tecnica i francesi faranno un’autentica concezione
bellica, affidando all’elan, allo
slancio, la loro condotta esclusiva sul campo, brutalmente stoppata nel 1914
dal filo spinato e dalle mitragliatrici, di cui Francesco II evidentemente non
disponeva.
Attratto
dagli aspetti politici della vicenda risorgimentale più che da quelli militari,
irritato dalla corruzione che intravede tra gli alti ufficiali borbonici – gran
parte dei quali ultrasettantenne, già sufficiente motivo di inadeguatezza –
Ferrara cita squallidi e meschini
retroscena della conquista del Sud,
rivelati dal patriota e diplomatico italiano Pietro Chevalier, amico di Cavour.
Tuttavia,
seppur ecciti gli animi, anche a posteriori, mettere tutti i buoni da una parte
e i cattivi dall’altra, non porta lontano ai fini di una lettura condivisa
della storia.
Romantica e rivendicazionista,
la corrente neoborbonica ha assorbito oggi il meridionalismo. Va bene dare voce alle ragioni dei vinti.
Va benissimo riconoscere agli sconfitti l’onore delle armi. Ma attenti a non creare miti al contrario.
Gli antenati della nostra democrazia repubblicana sono i Mille o i disciplinati
e ben vestiti facite ‘a faccia feroce?
Autore: EffeElle
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