Sulle magiche tracce della tarantola: dal mito popolare alla musica emblema del Salento
di Barbara Moramarco » 4 agosto 2013 alle 07:30
Tra pochi giorni il Salento tornerà ad essere travolto dall’energia, il ritmo, le “pizziche” della XVI edizione del Festival itinerante “La notte della taranta” che dal 6 al 24 agosto coinvolgerà quindici comuni. La mitica taranta, nome con cui nella tradizione popolare della Puglia è chiamato il comunissimo ragno dei Licosidi, la Lycosa tarantula (ragno dall’aspetto vistoso e dal morso doloroso ma innocuo), per secoli è stata ritenuta la responsabile di quel fenomeno pugliese, e salentino in particolare, noto con il nome di tarantismo.
Secondo le credenze popolari era il morso del ragno a provocare nelle persone colpite, i “tarantati”, un malessere generale interiore con sintomi psichiatrici, guaribile con la musica e la danza dell’ammalato per molti giorni consecutivi, sino allo sfinimento. Quell’antico fenomeno pugliese fu oggetto, nel 1959, di un importante lavoro di ricerca svolto nel Salento dall’etnografo italiano Ernesto De Martino (1908-1965) e incentrato su quei riti, danze e credenze e sulla cura per il morso del famoso ragno.
L’indagine etnografica di De Martino, pubblicata nel 1961 con il titolo “La terra del rimorso” (Il Saggiatore, 1961- pp. 273), provò che quei riti avevano per lo più la funzione di allontanare le inquietudini di una vita colpita dalla povertà e dall’emarginazione. Da allora però poco è stato aggiunto a quegli studi e a confermare il rallentamento subito dalla ricerca etnografica, è lo scrittore Federico Capone che nel suo libro intitolato “Viaggio nel Salento magico” (Capone editore, pp. 140- euro 10,00) così scrive:
“Nonostante i numerosi sforzi e la pervicace (buona) volontà, ben poco si è aggiunto, se non in casi assai rari, a La terra del rimorso; pur tuttavia, non si può negare che il movimento creatosi attorno al tarantismo abbia risvegliato, nel pubblico più ampio, un interesse che stava pian piano scemando verso quelle culture che sono delle classi popolari, provengono da queste e in queste trovano terreno fertile per attecchire, sopravvivere e rinnovarsi spontaneamente, senza forzature. In questo quadro di riscoperta, la ricerca ha subìto un rallentamento notevole, se non addirittura uno stop: ingenti somme di denaro sono state investite per confezionare piccoli e grandi eventi all inclusive, in grado di soddisfare la richiesta di esoticità del turista”.
“Viaggio nel Salento magico”, ulteriore perla della collana intitolata “La terra e le storie” diretta da Antonio Errico e Maurizio Nocera, curatore della prefazione, è un’antologia formata nella sua prima parte dalle diverse versioni di una leggenda narrata da Nicandro di Colofone (II sec. a. C.) e ambientata in Messapia, in un luogo chiamato dei “sassi sacri” dove si tenne una sfida, a passi di danza, tra le ninfe Epimelidi e alcuni giovani pastori messapi, inconsapevoli di essere in gara con delle divinità. La sfida, vinta dalle ninfe, si concluse con la trasformazione dei giovani pastori in ulivi dalla forma contorta “…ed oggi, si ode, di notte, una mesta voce proveniente dalla selva, quasi a lamentarsi” racconta Nicandro. L’antica leggenda fu ripresa da Ovidio (I sec. a.C.) e tradotta in ottava rima nel 1561 da Giovanni Andrea dell’Anguillara.
Seguono poi gli scritti di alcuni autori che hanno riportato testimonianza del tarantismo nel corso dei secoli. Tra questi Goffredo di Malaterra che nel 1064 descrisse così le tarantole che infestavano un monte vicino a Palermo e che infastidivano i soldati provenienti dalla Puglia al seguito dei Normanni: “…la tarantola è un verme che ha l’aspetto di un ragno, ma ha un aculeo velenoso e di puntura spiacevole”. Alberto di Aquisgrana, canonico della chiesa di Aquisgrana, descrisse invece le tarantole come “serpenti chiamati Tarenta”. Il canonico fu il primo a usare questo termine nella città fenicia di Sidone (nell’odierno Libano) e a descrivere i sintomi che i pellegrini cristiani colpiti dal ragno manifestavano “…morirono per l’agitazione e per una sete insopportabile, poiché le loro membra erano tumide per inauditi rigonfiamenti”.
Alberto di Aquisgrana descrisse anche i rimedi che gli abitanti di Sidone insegnarono ai Cristiani per guarire dal morso del ragno “…toccata e circoscritta la ferita di quel pungiglione con la mano destra, sembrava che quel veleno non potesse più nuocere” e il sistema per allontanarlo battendo delle pietre sugli scudi. “Chiaro il riferimento a quello che si è verificato nei secoli successivi, dell’importanza cioè del tamburello come strumento basilare della iatromusica” scrive Maurizio Nocera.
Girolamo Mercuriale, medico e filosofo, descrisse invece così i sintomi del tarantismo “…quando morde uno, quello è solito rimanere sempre nello stato e nel modo di fare in cui è stato punto finché il veleno non è stato espulso dal corpo”. E sul rimedio più noto, quello della musica, Mercuriale riporta ciò che aveva sentito dire da coloro che si erano recati in Puglia “…Tuttavia, per il resto affermano che contro il morso della tarantola può fare molto la musica, ma i rimedi per questo veleno sono da ricercarsi dagli abitanti della Puglia”.
A corredo dei preziosi testi che formano la prima parte del libro (e di cui l’autore ha riportato i testi latini originali), le belle ed antiche raffigurazioni simboliche della Puglia di Cesare Ripa, tratte dalla sua opera Iconologia del 1593. L’Apulia di Ripa è una “Donna di carnagione adusta che, vestita d’un velo sottile, abbia, sopra d’esso, alcune tarantole, simili a’ ragni grossi rigati di diversi colori, starà detta figura in atto di ballare, avrà in capo una bella ghirlanda di olivo, con il suo frutto e, con la mano destra, terrà con bella grazia un mazzo di spighe di grano e un ramo di mandorlo con foglie e frutto, avrà da una parte una cicogna, con un serpe in bocca, e dall’altra diversi strumenti musicali e, in particolare, un tamburello e un piffero”.
La seconda parte del libro di Federico Capone si apre con le testimonianze estratte dai diari di alcuni viaggiatori stranieri che dai primi del Settecento alla fine dell’Ottocento giunsero nella nostra regione. Leggendo questa selezione si scoprono notizie interessanti come quella riferita da George Berkeley nel 1717 secondo il quale il male si contrae “…mangiando frutta morsa dalla tarantola” o da Antoine Laurent Castellan che nel 1819 scriveva che la malattia “…rende un gran torto, soprattutto alle ragazze, per la loro sistemazione; inoltre il rimedio della musica è molto costoso, poiché si paga almeno un ducato al giorno ai suonatori, senza contare il medico, e poiché il malato balla da quattro a sette giorni di seguito”.
E ancora quella di Richard Keppel Craven che nel 1821 scriveva “gli abitanti di Brindisi appaiono molto più legati all’antica credenza rispetto a quelli di Taranto… I brindisini ritengono che il morso non manifesta i suoi effetti immediatamente, ma che questi si rivelano nei malati in forma di stupore, di languore, di debolezze e di malinconia, rendendoli inabili a svolgere le loro abituali occupazioni”. Girolamo Marciano da Leverano chiude questa selezione sul tarantismo con importanti riferimenti bibliografici. La terza parte del libro racchiude invece cinque leggende di alcuni paesi della Grecìa Salentina raccolte dal dialettologo Giuseppe Morosi. Le leggende in questione riguardano Martano, Castrignano e Sternatia. Il libro termina con alcuni racconti tratti dagli scritti di Trifone Nutricati Briganti, Giuseppe Gigli e Sigismondo Castromediano sulle fate, i folletti, gli orchi, le streghe, le sirene, gli spiriti della casa, i fatti di vita quotidiana e le superstizioni.
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