giovedì 16 agosto 2012

IL SALENTO DA OSTUNI A LEUCA/// Recensione apparsa su Nuovo Quotidiano di Puglia di mercoledì 15 agosto 2012


LA GUIDA DEGLI EDITORI CAPONE-------------------
Da Ostuni a Leuca:
il Salento per i turisti

Nuovo Quotidiano di Puglia
di mercoledì 15 agosto 2012


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   È anticonvenzionale fin dal titolo: Il Salento da Ostuni a Leuca e abbraccia, per scelta la parte turistica più celebrata della Puglia, i luoghi che più vanno di moda in questi anni, compresa la parte della Valle d’Itria che riguarda Martina Franca.
    Una guida, insomma, davvero pensata e realizzata per il turista che arriva e, in fretta, ha bisogno di orientarsi, senza perdersi in approfondimenti storici pedanti e inutilmente dettagliati che nulla aggiungono allo sguardo di chi può assaporare immediatamente, senza intermediazioni, la bellezza del barocco o il fascino di una spiaggia bianca, di un mare azzurro e di una scogliera suggestiva.
   Così è stata pensata da Lorenzo ed Enrico Capone e pubblicata “in proprio” visto che parliamo di una famiglia di editori, questa agile guida. Impaginazione razionale, colorata, con foto eloquenti e piantine che aiutano nell’orientamento il turista accompagnandolo per mano e cercando di fargli vedere se non tutto, molto. Quanto basta, comunque, per farsi un’idea dei luoghi e delle loro caratteristiche.
 In 160 pagine gli autori indicano quattro itinerari lungo la costa che complessivamente vanno da Casalabate a Porto Cesareo, propongono delle passeggiate nei centri di Ostuni, Brindisi, Taranto e Lecce, offrono istantanee di quei posti che il turista non può non vedere: Egnazia, Oria, Grottaglie, la zona delle gravine, la Valle d’Itria, Portoselvaggio, la Grecìa Salentina con schede dedicate a luoghi emblematici come la Grotta dei Cervi, le rovine di San Nicola di Casole, i laghi Alimini. Una bussola per muoversi in fretta e dare una dimensione e una collocazione ad un paesaggio ancora da scoprire.

Recensione apparsa su “Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 15 agosto 2012


vedi anche:


giovedì 9 agosto 2012

BRIGANTAGGIO// di Felice Laudadio Jr su "Larepubblica.it"

Né briganti né emigranti,simme d’o Redi Felice Laudadio jr.



Addio Sud
Si dovesse scegliere, meglio briganti che emigranti. Soprattutto se l’immagine evocata è quella dei romantici ribelli di Carlo Alianello. Poco importa che “Brigante se more”, nella ballata popolare di Eugenio Bennato: meglio cantare “‘sta musica s’adda cagnà” a denti stretti, che “nce ne costa lacreme ‘st’Ammerica”, con la giacchetta lisa e le mani spellate dalla fatica. E si moriva, fucilati dai bersaglieri, sciabolati dai cavalleggeri, traditi dai compaesani, come Andrea Santaniello, aggredito nel sonno e finito a colpi d’ascia nel 1868. Tremava Antonio Fiore accoltellando il compare, perché si raccontava che il capobanda fosse “cunciato”, avesse fatto cucire un’ostia consacrata sotto pelle, che lo proteggeva dalle pallottole. L’amico studiò di colpirlo con una lama alle gambe, ma ce ne volle, per avere la meglio. Ed erano tre contro uno. Giuda o delitto d’onore? Mai saputo.
Più che un brigante, Santaniello era un capo partigiano del Matese filoborbonico, perché la sua non era un’accozzaglia di tagliagole. Orazio Ferrara sostiene che la banda di Andrea era una delle poche legittimiste. Ribelli, non delinquenti. Organizzati militarmente: servizi da caserma, scritturali e furieri, perfino una specie di uniforme. Pochi ma buoni, inafferrabili. Alle scorrerie per predare o alla liberazione di effimere enclave insurrezionali, preferivano la guerriglia. Colpi di mano contro le Guardie Nazionali, assalti ai fianchi delle colonne piemontesi e pronte ritirate in luoghi inaccessibili, sempre diversi. La salvezza stava nello spostarsi continuamente.
Poi Fiore calò la lama, Andrea Santaniello morì e nacque la leggenda. Dalle schioppettate al mito, come Giuseppe Tardio, due “veri partigiani” secondo Orazio Ferrara. Lo scrittore e saggista tratteggia il loro volto meno bieco di altri in “Addio Sud. O briganti o emigranti” (152 pagine 12 €), nuovo titolo delle agili storie e controstorie dell’editore Capone. L’orgogliosa militanza culturale sudista ha portato la casa editrice salentina a raccogliere nell’arco di un trentennio una bibliografia importante sul Mezzogiorno postunitario. Ultimi ma non meno validi, i saggi brevi della collana a cura di Valentino Romano, “Carte scoperte”. Sono il rigore storico e l’eleganza dell’esposizione la cifra di questi lavori, che su un argomento da sempre controverso non oppongono la logica sterile del “noi briganti voi fucilatori” e non si chiedono chi abbia cominciato per primo. Quello che conta è la ricostruzione di una catena di eventi, le loro ragioni, le conseguenze. Le luci, senza nascondere le ombre.


Crocco
Nelle terre aspre dell’Appennino meridionale, l’odio fa presto a montare. Il 2 giugno 1860, un decreto di Garibaldi prometteva le terre ai contadini. L’incauta parola d’ordine del riscatto delle masse aveva innescato forze telluriche. Già a Bronte, Bixio rispose alla violenza con la violenza, a massacro ingiusto oppose massacro ingiusto. Dopo la battaglia del Volturno, mentre Gaeta è ancora assediata, la prospettiva miope e avida dell’annessione apriva un solco tra “cafoni” e “piemontesi”. Era la “mala unità”. Tasse, leva obbligatoria, finanche la soppressione dei modesti usi civici. I signori ancora più signori, i poveri ancora “chiù” poveri. Sbandati dell’esercito borbonico e renitenti ingrossavano le bande di insorgenti o di criminali, secondo l’orientamento dei capi. Agguati, incursioni, sangue. Trattati da invasori, sgozzati invece che abbracciati, gli “italiani” persero la testa. “Questa è Africa! I beduini al confronto sono latte e miele”, s’indignava il generale Cialdini. Terrore a terrore. Torture a torture. Baionette e Legge Pica, la pena di morte immediata, 120mila uomini nel Sud, la metà del nuovo esercito unitario. A fine 1864 la ribellione si potè dire circoscritta, ma non estinta. Restavano bande isolate di resistenti legittimisti o anche solo di scannagente. Si rinnovavano le tattiche: mordi e fuggi per i briganti, colonne mobili per i regi. Ed chi non va in montagna, ha fame. Emigra.

Non era una “buona guerra”, non c’era spazio per gesti cavallereschi. Nessuna pietà, “no mercy”, Gaetano Marabello, messinese trapiantato a Bari, offre un paragone interessante dei nativi di due Sud del mondo, illustrando analiticamente, per la prima volta in un volume, i punti di contatto tra “Briganti e pellirosse” (Capone, 144 pag. 12 €). Simili i vinti, simili i vincitori, giacche blu per yankee e piemontesi. Identica la lettura finale: da una parte tutti buoni, dall’altra solo cattivi, incivili, sanguinari, scotennatori. E tante le analogie, dalla comune demonizzazione come selvaggi alla tenacia con cui difendevano il loro mondo, dalle incursioni brevi e violente al coraggio delle donne, dai massacri alle deportazioni. Per non dire dei fotografi embedded con le truppe, a ritrarre immagini lombrosiane di nemici turpi e malfatti. Apaches e terroni non sono bruni e bruciati dal sole?
Carmine Crocco come Geronimo, altro accostamento speculare ed altro volume di questi, piccoli ma grandi (“Il brigante che si fece generale”, 144 pag. 13 €), dove Valentino Romano esalta l’equilibrio della linea storica Capone, offrendo a confronto immediato due punti di vista diversi, nello stesso testo. Uno è dello stesso capobrigante, l’autobiografia redatta con la collaborazione del capitano medico Eugenio Massa. Vi si oppone la controbiografia vergata da Basilide Del Zio. Pubblicate entrambe nel 1903, confermano la lettura manichea riservata al Donatelli, esecrato o esaltato, senza mezze misure. Un protagonista esemplare del brigantaggio, sempre in bilico tra delinquenza e rivolta sociale.


Morra
Angelo o diavolo, bandito o difensore degli umili, è lo stesso destino di Nicola Morra, il Robin Hood di Cerignola. Un fuorilegge per bene, “Il brigante gentiluomo”, lo ha definito Pasquale Ardito fin dal 1896 ed è il titolo di un ennesimo volume Capone sui briganti (152 pag. 12 €), a cura di Antonella Musitano, sempre con la prefazione di Romano. È il paradigma del brigantaggio, che nel Mezzogiorno è stato endemico, da ben prima del ‘700. La tirannide non ha un solo colore e per amore di giustizia il capopopolo cerignolano ha sfidato i soprusi per cinquant’anni, ha affrontato i soldati borbonici prima dei piemontesi, è stato contro tutti i potenti, il re di Napoli, poi quello d’Italia. Tre processi, uno nel 1848, gli altri dopo il 1860 e nel 1902. Ha pagato il conto con tutti. Quando si vorrà erigere una statua ad un patriota della libertà del Sud, non si dovrà andare lontano da Colamorra.


Link d'origine: Né briganti né emigranti 

mercoledì 8 agosto 2012

L'ISLAM NEL MEDITERRANEO // Recensione di Nicola de Paulis, apparsa su "Nuovo Quotidiano di Puglia" di mercoledì 8 agosto 2012


Zafira,
la Sultana pugliese
Il destino di Giacometta,
rapita dai turchi

- di Nicola de Paulis -

Nuovo Quotidiano di Puglia
di mercoledì 8 agosto 2012

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Dalla metà del Quattrocento a tutto il XVIII secolo, il mare Mediterraneo ed in particolare la fascia adriatica, sia per motivi politici che per le guerre (come la conquista turco ottomana di Costantinopoli nel 1453), l’espansione turca nel Mediterraneo con l’assedio di Malta, il sacco di Otranto nel 1480, la battaglia di Lepanto del 1571, ecc.) furono al centro di numerosi scontri fra l’Islam e la Cristianità.
Queste vicende avevano come conseguenza la caduta in prigionia, e quindi in schiavitù, di numerosi combattenti, nonché la cattura di donne e bambini, durante le incursioni, che venivano poi venduti lontani dalle loro terre d’origine. Gli schiavi cristiani confluivano nei porti levantini o nordafricani, mentre i musulmani catturati dalle flotte cristiane erano concentrati in località vicine al mare detti “Bagni” (da cui nel Salento si ritrova la denominazione di Santa Maria al Bagno, a Nardò).
La condizione infelice della schiavitù non differiva molto sui due fronti opposti: l’attesa di un eventuale riscatto, l’impiego ai remi delle navi, il servizio nelle famiglie (in questo caso per i cristiani di solito era prevista la castrazione), i giovani e i fanciulli catturati venivano educati e addestrati per rifornire il corpo dei Giannizzeri; l’harem era la destinazione delle donne giovani e avvenenti.
Una storia emblematica di queste vicende è stata riportata da Vito Salierno, già autore di numerosi saggi, nel recente “Islam nel Mediterraneo - Incontro scontro di civiltà” pubblicato dall’editore Capone di Cavallino.
A causa di un attacco da parte di una flotta turca nell’agosto del 1620, ai danni di Manfredonia in Puglia, si svilupparono due avvenimenti che dimostrano come Islam e Cristianità abbiano avuto una comune storia civile, umana e di integrazione culturale e a volte familiare, anche se spesso interrotta dalla reciproca intolleranza religiosa.
Il primo di questi avvenimenti è, appunto, il rapimento da parte delle truppe turche nel Monastero delle Clarisse di Manfredonia di una bambina di circa dieci anni, Giacometta Beccarino, orfana della madre e affidata alle cure delle suore dal padre, un alto ufficiale dell’esercito spagnolo, che portata alla corte di Costantinopoli, conquistò il cuore del Sultano Ibrahim, dandogli un figlio e riuscendo e farsi sposare. Un caso rarissimo nella storia familiare della Sublime Porta. La ragazza divenne così la Sultana pugliese, di cui parlano le cronache del tempo. Il figlio Osman ebbe un destino più triste: catturata la nave che lo trasportava, ancora bambino, dai Cavalieri di Malta, irriducibili nemici dell’Islam, fu per tutta la vita ostaggio dei cristiani, costretto a convertirsi e a farsi frate domenicano per volere del Papa.
Ma torniamo alla storia della bambina: dopo la cattura, fu portata a bordo della nave ammiraglia e alloggiata nella cabina del comandante per tutto il viaggio verso Costantinopoli, essendo lei stessa del bottino destinato al Sultano. Ella trascorse diversi anni nel Serraglio, sotto la sorveglianza di una “oda”, una “donna di stanza” e del Qizlar Aghasi, il capo degli eunuchi dell’harem. La sua vita cambiò: le vennero impartite lezioni di turco, imparò a recitare il Corano, a suonare il liuto e l’arpa, a cantare e a ricamare e le fu cambiato in nome in Zafira.
Nel febbraio del 1640, Murad IV, il Sultano conquistatore di Bagdad, muore improvvisamente. Sale al trono il fratello Ibrahim, soprannominato “Deli”, il pazzo, che aveva allora 24 anni.
Ibrahim, racconta Salierno, soffriva di prolungati periodi di impotenza e diventato Sultano, si trovò di fronte alla necessità di procreare. Le numerose concubine e i filtri magici non risolsero il problema, finché il capo degli eunuchi decise di far incontrare Zafira e Ibrahim in un giorno di primavera, in un giardino di tulipani prima del tramonto. L’olezzo dei fiori, il profumo che emanava il corpo di Zafira, un libretto romantico persiano di storie d’amore, conquistarono e “guarirono” il Sultano. Nel gennaio del 1642 Zafira diede all’impero il sospirato erede, Osman: la ragazza pugliese era diventata “sultana” e suntuosi furono i festeggiamenti nel Topkapi, in città e nell’Impero. Ma solo dopo due anni, nel 1644, la nave che portava Zafira e il piccolo Osman alla Mecca, fu catturata dai Cavalieri di Malta, fedeli al Papa, che rifiutarono qualsiasi riscatto.
Intanto il tribunale dell’Inquisizione di Malta, scoprì la vera identità di Zafira, morta nel frattempo nel gennaio del 1645 e fu riconosciuto in Osman l’erede al trono di Costantinopoli.
Il Sultano si vendicò scatenando una guerra sanguinosa contro Venezia attaccando Candia che capitolò alcuni anni dopo.
Osman fu battezzato e assunse il nome di Domenico Ottomano. Si dedicò alla vita ascetica e allo studio della filosofia. Dopo vari spostamenti, frate Domenico Ottomano morì a Malta.



Recensione apparsa su “Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 8 agosto 2012