Né briganti né emigranti,simme d’o Redi Felice Laudadio jr.
Si dovesse scegliere, meglio briganti che emigranti. Soprattutto se l’immagine evocata è quella dei romantici ribelli di Carlo Alianello. Poco importa che “Brigante se more”, nella ballata popolare di Eugenio Bennato: meglio cantare “‘sta musica s’adda cagnà” a denti stretti, che “nce ne costa lacreme ‘st’Ammerica”, con la giacchetta lisa e le mani spellate dalla fatica. E si moriva, fucilati dai bersaglieri, sciabolati dai cavalleggeri, traditi dai compaesani, come Andrea Santaniello, aggredito nel sonno e finito a colpi d’ascia nel 1868. Tremava Antonio Fiore accoltellando il compare, perché si raccontava che il capobanda fosse “cunciato”, avesse fatto cucire un’ostia consacrata sotto pelle, che lo proteggeva dalle pallottole. L’amico studiò di colpirlo con una lama alle gambe, ma ce ne volle, per avere la meglio. Ed erano tre contro uno. Giuda o delitto d’onore? Mai saputo.
Più che un brigante, Santaniello era un capo partigiano del Matese filoborbonico, perché la sua non era un’accozzaglia di tagliagole. Orazio Ferrara sostiene che la banda di Andrea era una delle poche legittimiste. Ribelli, non delinquenti. Organizzati militarmente: servizi da caserma, scritturali e furieri, perfino una specie di uniforme. Pochi ma buoni, inafferrabili. Alle scorrerie per predare o alla liberazione di effimere enclave insurrezionali, preferivano la guerriglia. Colpi di mano contro le Guardie Nazionali, assalti ai fianchi delle colonne piemontesi e pronte ritirate in luoghi inaccessibili, sempre diversi. La salvezza stava nello spostarsi continuamente.
Poi Fiore calò la lama, Andrea Santaniello morì e nacque la leggenda. Dalle schioppettate al mito, come Giuseppe Tardio, due “veri partigiani” secondo Orazio Ferrara. Lo scrittore e saggista tratteggia il loro volto meno bieco di altri in “Addio Sud. O briganti o emigranti” (152 pagine 12 €), nuovo titolo delle agili storie e controstorie dell’editore Capone. L’orgogliosa militanza culturale sudista ha portato la casa editrice salentina a raccogliere nell’arco di un trentennio una bibliografia importante sul Mezzogiorno postunitario. Ultimi ma non meno validi, i saggi brevi della collana a cura di Valentino Romano, “Carte scoperte”. Sono il rigore storico e l’eleganza dell’esposizione la cifra di questi lavori, che su un argomento da sempre controverso non oppongono la logica sterile del “noi briganti voi fucilatori” e non si chiedono chi abbia cominciato per primo. Quello che conta è la ricostruzione di una catena di eventi, le loro ragioni, le conseguenze. Le luci, senza nascondere le ombre.
Nelle terre aspre dell’Appennino meridionale, l’odio fa presto a montare. Il 2 giugno 1860, un decreto di Garibaldi prometteva le terre ai contadini. L’incauta parola d’ordine del riscatto delle masse aveva innescato forze telluriche. Già a Bronte, Bixio rispose alla violenza con la violenza, a massacro ingiusto oppose massacro ingiusto. Dopo la battaglia del Volturno, mentre Gaeta è ancora assediata, la prospettiva miope e avida dell’annessione apriva un solco tra “cafoni” e “piemontesi”. Era la “mala unità”. Tasse, leva obbligatoria, finanche la soppressione dei modesti usi civici. I signori ancora più signori, i poveri ancora “chiù” poveri. Sbandati dell’esercito borbonico e renitenti ingrossavano le bande di insorgenti o di criminali, secondo l’orientamento dei capi. Agguati, incursioni, sangue. Trattati da invasori, sgozzati invece che abbracciati, gli “italiani” persero la testa. “Questa è Africa! I beduini al confronto sono latte e miele”, s’indignava il generale Cialdini. Terrore a terrore. Torture a torture. Baionette e Legge Pica, la pena di morte immediata, 120mila uomini nel Sud, la metà del nuovo esercito unitario. A fine 1864 la ribellione si potè dire circoscritta, ma non estinta. Restavano bande isolate di resistenti legittimisti o anche solo di scannagente. Si rinnovavano le tattiche: mordi e fuggi per i briganti, colonne mobili per i regi. Ed chi non va in montagna, ha fame. Emigra.
Non era una “buona guerra”, non c’era spazio per gesti cavallereschi. Nessuna pietà, “no mercy”, Gaetano Marabello, messinese trapiantato a Bari, offre un paragone interessante dei nativi di due Sud del mondo, illustrando analiticamente, per la prima volta in un volume, i punti di contatto tra “Briganti e pellirosse” (Capone, 144 pag. 12 €). Simili i vinti, simili i vincitori, giacche blu per yankee e piemontesi. Identica la lettura finale: da una parte tutti buoni, dall’altra solo cattivi, incivili, sanguinari, scotennatori. E tante le analogie, dalla comune demonizzazione come selvaggi alla tenacia con cui difendevano il loro mondo, dalle incursioni brevi e violente al coraggio delle donne, dai massacri alle deportazioni. Per non dire dei fotografi embedded con le truppe, a ritrarre immagini lombrosiane di nemici turpi e malfatti. Apaches e terroni non sono bruni e bruciati dal sole?
Carmine Crocco come Geronimo, altro accostamento speculare ed altro volume di questi, piccoli ma grandi (“Il brigante che si fece generale”, 144 pag. 13 €), dove Valentino Romano esalta l’equilibrio della linea storica Capone, offrendo a confronto immediato due punti di vista diversi, nello stesso testo. Uno è dello stesso capobrigante, l’autobiografia redatta con la collaborazione del capitano medico Eugenio Massa. Vi si oppone la controbiografia vergata da Basilide Del Zio. Pubblicate entrambe nel 1903, confermano la lettura manichea riservata al Donatelli, esecrato o esaltato, senza mezze misure. Un protagonista esemplare del brigantaggio, sempre in bilico tra delinquenza e rivolta sociale.
Angelo o diavolo, bandito o difensore degli umili, è lo stesso destino di Nicola Morra, il Robin Hood di Cerignola. Un fuorilegge per bene, “Il brigante gentiluomo”, lo ha definito Pasquale Ardito fin dal 1896 ed è il titolo di un ennesimo volume Capone sui briganti (152 pag. 12 €), a cura di Antonella Musitano, sempre con la prefazione di Romano. È il paradigma del brigantaggio, che nel Mezzogiorno è stato endemico, da ben prima del ‘700. La tirannide non ha un solo colore e per amore di giustizia il capopopolo cerignolano ha sfidato i soprusi per cinquant’anni, ha affrontato i soldati borbonici prima dei piemontesi, è stato contro tutti i potenti, il re di Napoli, poi quello d’Italia. Tre processi, uno nel 1848, gli altri dopo il 1860 e nel 1902. Ha pagato il conto con tutti. Quando si vorrà erigere una statua ad un patriota della libertà del Sud, non si dovrà andare lontano da Colamorra.
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