Racconti dal Salento
La narrativa di Carlo Petrachi
tra bozzettismo e tradizione del cunto
Probabile che nei suoi Racconti dal Salento (Cavallino, Capone
Editore, 2018, pp. 128, € 10,00) Carlo Petrachi non abbia inventato nulla, ma
tutto trasnominato per evidenti necessità narrative. Unici nomi rispondenti a
persone vissute e conosciute sono quelli di Achille Lauro e Alfredo Covelli, i
due leader monarchici, che convincono l’avv. De Riccardi a candidarsi (L’acchiatura), e quello di Luciano
Graziuso padre, ufficiale dell’esercito nella Grande Guerra (La misteriosa vendetta del soldato). A
parte Mussolini, il generale Montgomery o il capo slavo Tito – qualcun altro
forse mi sfugge – i quali, nel racconto, sono sfondo come il mare o la
campagna; quelli della storia, questi della natura. Il resto, l’umanità
raccontata, è tutta negli agnomi dei suoi eroi, nel modo come erano chiamati,
per come erano o per quello che facevano, anagrafe infallibile e insostituibile
della gente che registra da sé e per sé.
In fondo, vero o inventato, che cambia?
Certe storie sono come certe statue, fanno tutt’uno col materiale di cui sono
fatte. Nei racconti di Petrachi la “materia” è un impasto di ricordi, di fatti,
di persone, di lingua, di sentimenti, di bisogni, di desideri, di vita paesana,
vera. Una materia che l’autore padroneggia con maestria, sapendo modulare
convessità e concavità, nel gioco dei chiaroscuri narrativi. La didascalicità
del sottotitolo dichiara la multifinalità dell’autore: arte narrativa, con
inevitabili afferenze antropologiche, etnografiche, linguistiche, ma anche
didattiche; “proverbi, modi di dire, luoghi, locuzioni, nomi e soprannomi in
dialetto salentino”. Un’operazione culturale in cui la componente narrativa non
perde, per questo, scorrevolezza e curiosità di lettura e fa assaporare il
piacere di quelli che una volta si chiamavano cunti, che venivano raccontati d’inverno davanti al focolare o
d’estate al fresco di un ombracchio o nei bar per vincere la noia paesana. La locuzione
< dal Salento > meglio esalta la provenienza.
Petrachi è di Melendugno, uno dei
feudi più vasti della provincia, con le marine tra le più belle e suggestive
del Salento, con San Foca, Torre dell’Orso, Roca: luoghi di leggende, di
approdi mitici. In questi ultimi tempi questi luoghi sono assurti alla cronaca
nazionale per via di altri approdi, di un contestatissimo gasdotto fatto
approdare da quelle parti. Forse i melendugnesi si oppongono disperatamente per
conservare intatto l’incanto di quei luoghi, che la narrativa di Carlo Petrachi
in un certo senso iberna.
Le storie narrate si inseriscono
in questa realtà in tutto l’arco temporale del ‘900, una realtà assai diversa
per condizioni e concezioni di vita nello scorrere del secolo. Nei racconti
della prima parte, che temporalmente arriva fino agli anni della ricostruzione,
l’Autore narra una società del bisogno secondo la raffinata arte del bozzetto;
nei racconti della seconda parte, grosso modo del benessere e dell’emigrazione
di ritorno, la prosa si libera da propositi di tradizione e risente di atmosfere
moraviane e cinematografiche.
La “regina” della prima parte è Cetta Sarda del racconto Miseria. La mettiamo in vetrina. “Se vi
avessero detto che la Cetta Sarda
aveva appena trent’anni non ci avreste creduto a vedere i suoi capelli come
stoppie sparpagliate, gli occhi cerulei che sembravano vuoti, il suo sorriso
smarrito, senza denti e il bambino, a cui si potevano contare le tenere
costole, che infilava la manina nella scollatura slacciata e prendeva il suo
seno sgonfio come un sacco vuoto e avvizzito come una foglia d’autunno e, quasi
fosse uno straccio, ci giocava un po’ prima di posizionarlo in bocca per
succhiare un po’ di latte e subito dopo mettersi a piangere”. Una maternità
degna di un pittore o di uno scultore.
Non realismo non neorealismo,
siccome si tratta di una realtà che non esiste più, è magismo di realtà. In cui
si ravvisa una sorta di partecipazione emotiva dell’autore fra nostalgia dei
tempi e soddisfazione di rievocarli come cifra d’arte e di storia.
Prevalgono nei racconti più le
vedute d’insieme, gli ambienti, che i profili umani, anche se a volte emergono
tipi, degni della migliore narrativa verista. Decisamente più riuscite le
figure femminili: Brizia, Assuntina, Rosetta: eroine che non sono dissimili, a ben riflettere, dalle
donne di oggi, fatte le differenze dei tempi e delle condizioni. La Marlisa del racconto Lontano lontano presagisce costumi assai
diversi da quelli di Rosetta del
racconto La paglia annanti lu focu…,
meno castigati. Ma il fuoco sessuale fa strame di entrambe, in una con la
felicità dell’approdo matrimoniale, nell’altra col rimpianto di un amore
bruciato dagli eventi ostili della vita.
Il lieto fine caratterizza gran
parte dei racconti, è forse il dato più popolare della narrativa di Petrachi,
perché è tipico del popolo – specialmente in tempi di sofferenza come quelli
evocati dall’autore – ipotizzare la vittoria del bene sul male, bilanciare e
superare la condizione di sofferenza con il vagheggiamento di un riscatto
finale, per un’esigenza risarcitoria. Da questo punto di vista il racconto L’acchiatura meglio risponde alla favola
bella di ogni fanciulla orfana e povera. Assuntina
Quatthrupezze è la Cenerentola salentina, che parte da Lecce a Roma come
donnetta di servizio per diventare marchesa, sposa e madre felice. Brizia, altro archetipo popolare, è la
fanciulla scaltra che salva l’onore e l’amore contro il signore feudale malvagio
che rivendica lo jus primae noctis
con uno stratagemma degno di Shahrazad di Mille
e una notte.
I racconti temporalmente più
vicini entrano in un’ottica diversa, nella quale il piacere di narrare supera
l’esigenza di dire e di tramandare. Racconti come Lo specchio e Ultimo scherzo
sono veramente ben congegnati e fanno pensare a certi film di Mario Monicelli,
come Amici miei.
Sullo sfondo un mondo più che popolato
direi evocato di macàre, di credenze popolari, di superstizioni, di scazzamurrieddhri che, anche quando,
come ne L’inafferrabile presenza dell’Eremita,
emerge uno scarto culturale tra credulità e razionalità – nessuno ci crede – non
lasciano che questa prevalga del tutto. O come ne La misteriosa vendetta del soldato, dove la credenza popolare,
ampiamente esibita, è alibi per coprire soluzioni assai più razionali.
L’Autore si serve del
plurilinguismo per rendere più vero e
colorito il racconto. Lo si nota soprattutto ne L’acchiatura, che è il più lungo e disteso e si pone come transito
tra le due società del Novecento, con spartiacque la seconda guerra mondiale. Qui
la voce narrante si fa da parte col suo italiano e cede al dialetto salentino,
al dialetto romano e al latino dei suoi personaggi.
Gigi Montonato
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