Antonio Errico: “se avete
tempo vi racconto delle favole”, di EffeElle
Gli scolari di oggi hanno tempo per una fiaba? Tra una
risposta agli sms, un’occhiata all’I-pad e un videogioco alla consolle, non ne
resta molto per incantarsi davanti a un racconto. Ma le favole piacciono
ancora agli anziani. Li fanno sorridere di malinconia. Le favole, del
resto, sono nate prima di loro, arrivano da lontano. Quelle del Sud sono figlie
dei secoli, hanno le radici nei miti mediterranei. Coltivate nella terra del
sole, sanno di buono e di essenziale, di pane e pomodoro, condito con olio e
sale.
Quel frate cercatore, che in primavera o in autunno,
sotto il solleone o al gelo del vento invernale, bussa ogni giorno casa per
casa? “Bravi paesani, un’offerta per il convento”. Non ce ne sono più e non
regalano immaginette dei Santi. E quei diavoli, evocati da uno stregone, che in
una sola notte erigono un campanile? Ora sono zombie, alieni, mutaforme, non
certo demoni. E i fantasmi, gli spettri, le presenze inquiete o infelici che
popolavano di notte le sale dei castelli? L’illuminazione elettrica, i led, li
hanno stanati, inesorabilmente. Nonostante tutto, le favole del
Meridione parlano di morte, più che di vita. Di dolore più che di felicità.
Raccontate dalle nonne vestite di scuro, narrate nei
cerchi intorno a un fuoco, sono diventate racconti popolari, come quelli
pugliesi, in versi, a cantilene, che il salentino Antonio Errico rivisita in “Fiabe e Leggende di
Puglia” (128 pagine 10 euro), volume d’esordio della collana La terra e le
storie, che dirige con Maurizio Nocera per l’editore leccese Capone.
Trentadue favole, da un altro tempo, da un altro
mondo, anche se non da un altro pianeta. E c’è pure da domandarsi se abbiano
ancora cittadinanza in una società che se pure ha riscoperto i camini – magari
finti, per puro design – è fin distratta dagli schermi, grandi, piccoli,
palmari. “C’è un tempo per i racconti, come per tutto”, fa notare
Errico, rivedendosi, bambino, ascoltare “in silenzio e con stupore”,
lottando contro il sonno, filastrocche di sortilegi e storie di polveri
magiche, di semi prodigiosi, di animali parlanti. Di regni minacciati e di
scrigni fatati. Di mostri e di principesse. Da adulti, quelle narrazioni si
sono stratificate nella memoria, pronte a tornare, a riprendere forma, “riportando
ad un passato che non è solo nostalgia”. È cultura, è patrimonio di una comunità, piccola o
grande. E va conservato, valorizzato. Affidato in eredità.
Sette mesi di volontariato culturale, da giugno
all’antivigilia del 2012, dedicati alla riscrittura originale di fiabe e
leggende pugliesi della tradizione scritta e orale. Testi nei quali ha “messo
le mani”, rimaneggiando, “a volte ritoccando, a volte reinventando
e rinarrando”. Nessuna ambizione scientifica, solo amore, passione,
memoria.
E tra le storie, anche la storia, sempre in abito da
favola. Le scimitarre turche irrompono in due brevi pagine che raccontano del
coraggio e morte di Giulio Antonio Acquaviva, duca d’Atri e di Teramo, conte di
Conversano e di Castro San Flaviano, signore di Roseto, di Padula, di Forcella.
“Corri, morello, corri, portami al castello, a Sternatìa, fa’ che io muoia
in pace a casa mia”. È l’estate del 1480, dell’assedio di Otranto. I Turchi
gli hanno teso un’imboscata a Muro Leccese. Si è battuto con coraggio e
fierezza, ma è ferito alla gola e si aggrappa a redini e criniera, con la poca
vita rimasta. “Corri, morello, corri”. Il cavallo galoppa per le campagne,
per le contrade vuote, dentro la boscaglia, senza distanziare gli inseguitori,
che “gli sono appresso come un fuoco che lambisce”. Un colpo alle spalle
e la testa cade. Poi viene infissa, in segno di vittoria e di disprezzo. Ma il
morello continua a correre verso Sternatìa. Si ferma al portone della chiesa e
davanti a quanti lo guardano insanguinato, si volta e riprende la strada a
ritroso. Porta gli uomini verso il corpo del padrone.
Anche se condivide la consistenza incerta dei sogni,
il conte non è solo pugliese, non è solo mediterraneo. È universale. E così il
morello, come perfino i nemici assassini. “Il bambino ascoltava”,
scrive di sé e di tutti Antonio Errico. “Aveva negli occhi un sonno pesante.
Le donne avevano grossi seni, grosse gambe, vestiti neri. Lui ascoltava:
racconti di magie, di sortilegi. Nella sera interminabile. Nell’inverno che
assediava”. Ha ritrovato quei racconti, quelle donne, quegli inverni, nelle
pagine di Nietzsche: ‘E siamo perfino avidi delle cose che ci raccontano la
sera le vecchie donnette’. Li ha ritrovati “ogni volta che gli capitò di
incontrare qualcuno che raccontava qualcosa a un bambino” e bambini che
ascoltavano le storie, spesso senza riuscire a comprenderle. Incantati dalle
parole.
Link d'origine: ANTONIO ERRICO: “SE AVETE TEMPO VI RACCONTO DELLE FAVOLE”