I moribondi del Palazzo Carignano
Torino, il primo Parlamento dell’Italia unita
In una riedizione dell’Editore Capone, a cura di Enzo Di Brango
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Se le aule parlamentari italiane
invece di essere a semicerchio, alla francese, fossero state rettangolari,
all’inglese, gli esiti della politica italiana sarebbero stati diversi? E
soprattutto, si sarebbe mai verificato quel tratto tutto italiano del consociativismo,
che ha dato vita in più di centocinquant’anni di storia a governi che vanno dal
Connubio Cavour-Rattazzi alle Larghe intese di Letta-Alfano?
Il problema della forma dell’aula
parlamentare si pose fin dall’inizio, sia pure come apparente stravaganza, quando
il conte Gianni Battista Michelini, deputato dal 1848, in sede di discussione
del trasferimento della capitale da Firenze a Roma, il 23 dicembre 1870, chiese
che passasse all’ordine del giorno un documento in cui chiedeva che l’aula
destinata alle adunanze della Camera a Roma fosse “quadrilunga”. E siccome
tutti si misero a ridere, ad incominciare dai suoi, sbottò: “Eh no, signori
deputati! La quistione è eminentemente politica…soprattutto visti i felici
effetti in Inghilterra”. In quel paese l’aula dove si riunisce la Camera dei
Comuni, infatti, è rettangolare, il che favorisce una netta distinzione tra
destra e sinistra. Secondo Michelini la circolarità produce confusione, la
rettangolarità invece favorisce la chiarezza degli schieramenti. Bah, che avesse
ragione a chiedere chiarezza e coerenza nessun dubbio, che però la forma
dell’aula potesse evitare il nomadismo dei parlamentari ne passa. Ad ogni modo fu
scelta la circolarità, che perfino dal punto di vista semantico è affine al
nomadismo parlamentare.
A questi pensieri ci conduce un
interessante libro di Ferdinando Petruccelli della Gattina, I moribondi del palazzo Carignano,
pubblicato nel 1862, ed ora con felice intuizione riedito dall’Editore Capone
di Cavallino, nella collana diretta da Valentino Romano “Carte scoperte. Storie
e controstorie”, a cura di Enzo Di Brango e prefato dallo stesso Romano (pp. 136,
€ 12,00).
L’autore, di Moliterno in
provincia di Potenza (1815-1890), fu scrittore e uomo politico di sinistra,
partecipò ai moti del ’48, fu esule a Parigi, dove combatté sulle barricate
durante il colpo di stato bonapartista; rientrò in Italia e fu deputato
(1861-65, 1874-82). Autore di numerosi saggi politici.
Questo, di cui parliamo, è il più
famoso, benché a tratti abbia carattere panflettistico. Fa l’elogio di Cavour,
di cui coglie aspetti che, espressi all’indomani della sua morte, hanno un valore
critico importante: “Egli non parla per la Camera, ma per l’Europa. […] Il
diplomatico è un gigante; l’amministratore, mediocre; l’uomo, un antitesi” (p.
53). Di Crispi dice che “ha l’attitudine la più aggressiva nella Camera –
quando s’indigna e rompe la monotonia. Allorquando egli s’alza per parlare, si
direbbe che sia per tirar fuori di tasca un paio di revolvers” (p. 44).
Del Parlamento dice: “Non si dirà
giammai che il nostro è un Parlamento democratico! Vi è di tutto – il popolo
eccetto” (pp. 39-40). Della destra dice che “non ha tinte ben recise; se nonché
seggono su i suoi banchi parecchi pretendenti, parecchi rivali più o meno
mascherati del conte di Cavour” (p. 40). “Il centro è le radeau de la Méduse. Là sonosi raggruppati tutti i naufraghi, tutti
i frantumi, épaves, del partito del
conte di Cavour…il partito delle pretensioni impotenti, degli ambiziosi
fulminati – Icari di cartone imbrattato” (p. 41). Ovvio che in questo “albergo
degli invalidi del Presidente del Consiglio” includesse Liborio Romano,
Giuseppe Pisanelli e Carlo Poerio, definito quest’ultimo “capo putativo del
quartier generale dei deputati napoletani…ma che non ha capo. Pulvis et umbra!” (p. 41). La sinistra
per lui, uomo di sinistra, “è la sede degli uomini di Stato in isbozzo, per il
momento” (pp. 41-42); mentre “L’estrema sinistra componesi di individui
isolati, i quali hanno quasi tutti
un passato, un nome, una personalità morale, netta, recisa. Tutti questi
elementi non s’accordano tra loro” (p. 42).
Ben si sarebbe inserito questo
libro in atmosfere celebrative dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Ma
circostanza a parte, il libro ha una sua autonoma validità, perché offre uno
spaccato dell’Italia politica relativo al primo parlamento dell’Italia unita, VIII
legislatura in successione sarda, con flash interessanti su uomini e formazioni
politiche.
Interessanti per noi salentini i
giudizi su Liborio Romano, Giuseppe Romano, Giuseppe Massari e Giuseppe
Pisanelli. Del tutto assente Sigismondo Castromediano, non si sa se per un
riguardo o per summa iniuria.
Di Liborio Romano dice: “Io non
so ciò che vuole Liborio Romano, chi è desso, ove tende, s’egli vezzeggi
l’unità italiana o l’autonomia napoletana” (p. 119). Va meglio per il fratello Giuseppe
Romano, di cui dice “ardente di ben fare” (p. 111). Di Giuseppe Massari “E’
l’uomo lo più calunniato tra i mestatori della politica governativa, ma in
verità egli è cento volte migliore della sua rinomanza – e, comparato ad altri
della consorteria, un modello” (p. 74). Con Giuseppe Pisanelli è tranciante:
“Pisanelli passava per uomo istrutto; per parlatore enfatico sì, ma facile,
colorito ed elegante; per carattere sostenuto, per disinteressato ed alla cosa
pubblica atto, e delle cose politiche intelligente. Messo a prova, il disinganno
fu completo” (p. 126).
L’interesse per questo libro
nasce nel momento in cui ieri come oggi la classe politica italiana presenta
gli stessi caratteri. Il curatore Di Brango osserva che “se spogliamo i
deputati di allora dai centocinquanta e passa anni di retorica unitaria, in
fondo in fondo, i parallelismi sono possibili…evidenti. I vizi, gli intrighi,
le furbizie che caratterizzarono l’ultimo periodo di vita del parlamento sardo
furono mutuati e consolidati nei parlamenti unitari, “migliorati” e “affinati”
con perizia volpina tutta italiana”. (p. 17) Come non pensare ai parlamentari
del Pd di meno di due mesi fa in sede di votazione del Presidente della
Repubblica, leggendo questo passo del Petruccelli: “Vi sono parecchi deputati
che seggono alla sinistra e votano costantemente con la destra, altri che, anche
sedendo alla destra, votano talvolta con la sinistra”? (p. 40).
Un libro, questo, forse
eccessivamente duro, con qualche giudizio affrettato e dettato da avversioni
temporali, col gusto anche della battuta, ma che apre di sicuro un affaccio
importante su una realtà storica dimenticata.
Gigi Montonato
“Il galatino” – 13 giugno 2013
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